Remembrance DayLa protesta pacifica di un calciatore fa emergere nuove tensioni tra Regno Unito e Irlanda

James McClean, ha trentacinque anni e una lunga carriera nel calcio inglese. Ogni 11 novembre si rifiuta di scendere in campo nel giorno in cui il calcio inglese commemora i soldati britannici morti nei conflitti del secolo scorso

AP/Lapresse

Una cosa che salta all’occhio, a uno spettatore poco esperto che ha assistito a Wrexham-Mansfield Town di sabato 9 novembre, è che durante i due minuti di silenzio per il Remembrance Day c’è un giocatore della squadra di casa che se ne sta in disparte, volutamente lontano dai compagni allineati. Il Wrexham è una squadra neopromossa nella terza serie inglese, ma ormai al suo stadio non mancano tifosi occasionali venuti a seguire il club di calcio più pop delle categorie minori, divenuto un fenomeno di culto grazie alla docuserie lanciata nel 2022 su FX Welcome to Wrexham, che segue le gesta della squadra e dei suoi due famosissimi proprietari, gli attori hollywoodiani Ryan Reynolds e Robert McElhenney. Ai frequentatori più assidui degli stadi inglesi, il gesto visto sabato scorso non ha invece sorpreso per nulla.

Il giocatore in questione si chiama James McClean, ha trentacinque anni e una lunga carriera nel calcio inglese, che conta anche tre stagioni in Premier League con la maglia del West Bromwich Albion, tra il 2015 e il 2018. Ma ciò per cui è più famoso è proprio questa sua protesta pacifica che va avanti da tutta la carriera: ogni 11 novembre, nel Regno Unito si celebra il Remembrance Day, che viene osservato anche sui campi da calcio attorno a quella data, predisponendo due minuti di raccoglimento prima dell’inizio delle partite e facendo indossare ai giocatori il tradizionale poppy (il papavero) simbolo della ricorrenza. Questa celebrazione, istituita nel 1919 per ricordare l’armistizio della Grande Guerra, è oggi l’occasione per commemorare tutti i soldati britannici morti nei conflitti del secolo scorso. Ma McClean si è sempre rifiutato di prendervi parte.

Le ragioni di McClean
«Se il solo scopo del poppy fosse quello di onorare i caduti delle due guerre mondiali, non avrei nessun problema a indossarlo, ma non è questo il caso», ha scritto il calciatore su Instagram il giorno successivo, per chiarire ancora una volta i motivi della sua protesta. L’estensione della celebrazione a tutti i caduti britannici coinvolge infatti anche «quelli che aprirono il fuoco e uccisero 14 civili innocenti durante la Domenica di sangue del gennaio 1972, nella mia città natale, così come i responsabili di altri brutali crimini commessi in Irlanda». Nativo di Derry, città simbolo del conflitto nordirlandese, McClean sostiene una posizione molto comune tra i nazionalisti irlandesi dell’Ulster, da sempre molto critici verso il Remembrance Day. Proprio quest’anno la premier nordirlandese Michelle O’Neill ha deciso inaspettatamente di prendere parte alle celebrazioni, scatenando grosse polemiche (O’Neill fa parte del partito indipendentista Sinn Féin), al punto che oltre 100 famigliari delle vittime del Troubles hanno inviato una lettera di protesta ad Irish News, e O’Neill ha poi dovuto spiegare che capiva le critiche e che la sua partecipazione è stata dovuta a ragioni politiche.

Non stupisce allora che anche per il centrocampista del Wrexham la questione sia molto sentita. Pur essendo nativo di Derry, fin dal 2012 ha deciso di rappresentare la selezione nazionale della Repubblica d’Irlanda invece quella dell’Irlanda del Nord. D’altronde lo stesso Derry City – club in cui McClean è cresciuto – gioca dal 1985 nel campionato dell’Éire. Oltre a prendere le distanze dalle celebrazioni del Remembrance Day, il giocatore è anche solito indossare il lutto al braccio il 30 gennaio, nell’anniversario della Bloody Sunday. «Rispetto coloro che portano il poppy, – ha continuato nel suo messaggio – non obbligherei mai qualcun altro ad abbracciare le mie stesse convinzioni, e non sono abbastanza ingenuo o stupido da credere che la cosa sia reciproca».

Un caso ancora aperto
Nonostante un dissenso ragionevole, e sebbene McClean abbia sempre chiarito di non avere nulla contro il Regno Unito e i suoi abitanti, i suoi gesti creano sempre molte polemiche, in particolare tra la destra nazionalista inglese. I primi insulti li ha ricevuti nel 2012, quando giocava al Sunderland, e all’epoca a difenderlo intervenne addirittura Giovanni Trapattoni, allora ct dell’Irlanda. Nel 2015, durante una tournée negli Stati Uniti con il West Bromwich, il centrocampista si attirò nuovamente critiche e improperi per essersi voltato durante God Save the Queen, che in quell’occasione era stata eccezionalmente suonata prima della partita. La vicenda di McClean dimostra chiaramente come la situazione politica tra irlandesi e britannici sia ancora molto lontana dal dirsi risolta.

Lo si era già notato lo scorso settembre, con l’improvviso scoppiò delle polemiche di gran parte della stampa britannica contro Lee Carsley, tecnico dell’U21 temporaneamente nominato alla guida della Nazionale maggiore, colpevole di avere origini irlandesi e che per questo non canta mai l’inno inglese. Le tensioni nazionaliste arrivano fino in Scozia, dove calcisticamente la fa da padrone il Celtic, club storicamente legato agli immigrati irlandesi di Glasgow. Nella gara di domenica contro il Kilmarnock, gli ultras della squadra hanno esposto degli striscioni che attaccavano i governi inglesi per il loro comportamento nel conflitto tra Israele e Palestina, da Balfour a Starmer. E in un successivo comunicato hanno collegato il tema anche al Remembrance Day, parlando di «ipocrisia dell’Armistizio» e citando esplicitamente «il sanguinario governo britannico in Irlanda».

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