Chiamatele classi, identità, gruppi, categorie. Io li chiamo cassetti sociali. Sono quei contenitori che usiamo per leggere e operare nelle dinamiche relazionali. Servono a semplificare la comunicazione con l’altro ma anche le scelte di governo, politiche ed elettorali. Come se la comunità fosse scomposta in piccoli e grandi gruppi tenuti insieme da qualcosa. Questo qualcosa spesso è definito prima dei gruppi stessi e l’individuo se lo trova intorno e addosso appena nasce. Più che essere un luogo in cui condizioni le regole sociali del gruppo, si tratta di una appartenenza che ti condiziona e ti imposta nella dinamica sociale salvo non rare ma faticose eccezioni eversive.
Nella politica prima erano le classi sociali, poi le ideologie, i partiti, i sindacati, le femministe piuttosto che gli attivisti dei generi o ancora le chiese, i borghi e le famiglie o ancora le associazioni da quelle professionali fini al terzo settore. L’individuo è sempre dentro un cassetto e muovendo i cassetti compongo la cassettiera ossia lo Stato piuttosto che il mondo. Questo schema è quello che ha mosso le erronee analisi del voto usa (anche dei bravi colleghi che hanno passato mesi a sistemare i cassetti degli ispanici e delle donne) e le drammatiche concezioni dei campi larghi e larghissimi che falliscono pretendendo una società fatta di mattoncini lego.
Uno spettro o un sogno si aggira per il mondo: è la rivoluzione neo-individuale. Questo nuovo cittadino ed elettore fugge tutti gli schemi e li nega, assume comportamenti di rifiuto e si muove libero. Perché però si urla preoccupati al rischio di questa “atomizzazione” come qualcuno la chiama? E se fosse un modo nuovo della libertà umana di esibirsi sul palcoscenico della storia? Forse non ci siamo accorti che il piano dei valori e della tenuta degli ordinamenti giuridici non è necessariamente garantito dai cassetti.
Nelle dittature o nelle democrazie è tutto un classificare e scatolare gli individui ma il muro di Berlino fu abbattuto da uomini liberi e non da decisioni politiche formali di organi deputati a confezionare il mondo in scatolette. Pensate al concetto di nazione, quanto è divenuto banale nel senso di indefinito e plurale. O ancora alla Chiesa di Francesco diffusa e aperta anche con la semplificazione del messaggio religioso. Pensare all’impegno nel volontariato di tantissimi italiani a prescindere dal carattere culturale delle sedi di azione sociale.
Noi costituzionalisti dovremmo accorgerci prima di quello che linguisti e sociologi già sentono scorrere tra le dita quando vedono la trasformazione dei caratteri identitari tra i gruppi con micro-appartenenze piuttosto che l’uso dei termini linguistici fuori dai canoni tradizionali.
Si tratta di capire, in questo quadro in mutamento, quale sia la risposta istituzionale. Nelle società plurali libere, il bisogno dell’altro si è ridotto progressivamente. Non serve più per difendersi, per il cibo e per molte altre funzioni vitali. L’altro è sempre più una scelta e sempre meno solo una necessità. Siamo forse più liberi di quanto pensiamo. Resta però la indispensabile funzione della società e dovremmo chiederci dove e come appostare valori e principi, diritti e doveri, in modo che siamo argini a ogni rischio di declinazione antiliberale della libertà.
Quando iniziò, inventammo i parlamenti, i governi legittimati dai governati e così via su base nazionale. Quale abilità di ingegneria costituzionale eviterà di considerare questa incredibile novità solo come un terribile rischio da parte dei sacerdoti dei cassetti? Io pongo il tema, ci vorranno decenni per le risposte che davanti alla neo-libertà deve preparare il neo-costituzionalismo. Qualcuno della classe dirigente diffusa inizi a ragionarne con noi.