La «destra tech» ha preso il potere negli Stati Uniti, ha detto Le Monde, riprendendo così un’etichetta di tech right su cui da tempo si stavano accumulando segnalazioni. Citando alla rinfusa: il New Statesman, ha definito la Silicon Valley «intossicata» da una nuova mania per il quoziente di intelligenza dai risvolti razzisti. Secondo il blogger Noah Smith è logico che chi fa business si orienti a favore di un partito come quello Repubblicano che si presenta come più pro-business.
Il think tank Foundation for American Innovation ha evidenziato la confluenza di interessi tra il populismo conservatore e una «contro-élite» in ascesa di imprenditori tecnologici che dopo i problemi del Covid, e con la crescente spinta della politica a regolamentare i loro settori, vorrebbero dal governo – contemporaneamente – meno lacci e lacciuoli, ma anche aiuto contro la concorrenza cinese. Il Domani invece nota una crescente importanza di giovani nuovi investitori tecnologici che si sono procurati i capitali con cui partire scommettendo in criptovalute, e sono dunque ideologicamente contigui a una certa mentalità antistatalista che negli Stati Uniti tende a stare a destra.
Ovviamente, dopo la vittoria di Trump l’attenzione è aumentata. Alle analisi precedenti si sono aggiunte, ad esempio, l’osservazione su una sempre maggior importanza a Silicon Valley di un settore legato alla Difesa che spingerebbe verso isolazionismo e nazionalismo. Ma anche la denuncia della incapacità dei media di percepire questa spinta e la constatazione che la tech right vuole in pratica meno Stato e più Stato allo stesso tempo: deregulation e commesse.
Appunto, questo curioso ircocervo evoca la figura di un immigrato che influenza governi e promuove idee a suon di miliardi, coltiva utopie transumaniste, vuole che le auto elettriche prendano il posto di quelle tradizionali, è fissato con la demografia. Solo, non è uno speculatore di successo, ma davvero investe milioni per sviluppare tecnologie in modo da portare il surplus dell’umanità su Marte, diffondere veicoli senza pilota, creare ibridi di uomo e robot, favorire ambiti di discussione favorevoli alle sue idee, porre fine al denaro cartaceo; e davvero sta per assumere un ruolo di primo piano in un governo.
Insomma, George Soros è il bersaglio preferito dai complottisti; ma dovrebbero preoccuparsi più di Elon Musk che rende concrete le loro paure. E dopo avere inventato PayPal; avere creato SpaceX, The Boring Company, Neuralink, OpenAI, Tesla; avere proposto Hyperloop; avere acquistato X; adesso si accinge a prendere la direzione di un Department of Government Efficiency voluto da Trump, alla cui campagna elettorale ha contribuito con settantadue milioni di dollari (ma con quanto aveva dato prima all’apparato del presidente eletto si arriverebbe a centoventi milioni). Un investimento che avrebbe reso quasi mille volte tanto, se è vero che nella sola settimana seguita al voto del 5 novembre la sua fortuna è aumentata di settanta miliardi!
Immenso ritorno a parte, l’evoluzione suona clamorosa perché ancora nel 2020 in una intervista al New York Times, Musk si definiva «liberal». Vantava anche i meriti della Tesla in materia di diritti Lgbtq+, e finanziava democratici e repubblicani allo stesso modo. «Sono socialmente molto liberal. E sul piano economico, forse sono a destra del centro, o al centro. Non lo so» diceva, dichiarandosi una «persona normale di buon senso».
Il suo business delle auto elettriche dovrebbe in effetti suscitare perplessità se si pensa alla ostilità proclamata di Trump per ogni transizione ecologica, e d’altra parte appunto Musk ha comprato X dicendosi ormai stufo della censura woke, intanto che comunque proprio l’ecologismo wokista promuoveva politiche di cui le Tesla hanno profittato.
Curioso anche il contrasto tra i proclami anti-Pechino di Trump e i suoi interessi in Cina. C’è peraltro molto di personale nella mania che gli è venuta da un paio di anni su migranti invasori, persone transgender e «virus woke» che minaccerebbe la civiltà umana. Si sospetta, molto legata a problemi con un figlio che ha cambiato sesso: secondo lui, dopo avere troppo frequentato certi ambienti.
Non è però solo Musk, anche se lui di questa Tech Right è il massimo simbolo. La stessa traiettoria a Silicon Valley hanno seguito altri ex-grandi donatori del Partito Democratico come David Sacks, ex Ceo di Zenefits, PayPal e Yammer, e ora alla testa della grande società di investimenti Craft Ventures. Marc Andreessen, fondatore di Netsape e creatore di Mosaic, ora alla testa di dell’altra società di venture capital Andreessen Horowitz assieme a Ben Horowitz, che ha pure avuto la stessa evoluzione. I gemelli Tyler e Cameron Winklevoss, resi famosi dal film del 2010 The Social Network per non aver creato Facebook. Da prima c’era invece Peter Thiel: fondatore di PayPal e di Palantir Technologies, diventato immensamente ricco grazie al suo investimento in Facebook, che nel sostegno a Trump era stato pioniere, e che si presenta anche come ideologo.
In realtà, su una settantina di miliardari della Silicon Valley solo una ventina stanno con Trump. Kamala Harris ha in effetti raccolto più donazioni, e con lei si sono schierati sia il cofondatore di Microsoft Bill Gates che Laurene Powell Jobs, vedova del cofondatore di Apple Steve Jobs e donna più ricca della Silicon Valley. Ma è questa ventina ad avere maggior accesso a uno spazio mediatico mondiale che hanno contribuito a riconfigurare.
Secondo una analisi riportata da Le Monde, «sono ancora una minoranza nella Silicon Valley. Ma sono guerrieri politici come il resto della Silicon Valley non lo è». Aspirante ideologo di questa corrente, Richard Hanania ha spiegato che la tech right «combina l’accettazione delle disuguaglianze della destra con l’apertura al cambiamento della sinistra». Si sente però censurata dai liberal; ritiene che il denaro non debba essere speso per ridurre le disuguaglianze, ma per finanziare i progressi tecnologici; rifiuta la discriminazione positiva e la «diversità». «Sebbene ci siano differenze con il conservatorismo americano, non c’è alcuna ragione per cui le due parti non possano lavorare insieme in un futuro prevedibile. La forma della nostra politica e della nostra cultura nei decenni a venire dipenderà dalla misura in cui lo faranno», spiega sempre Hanania.
Marc Andreesen, a sua volta, eleva lo sviluppo tecnologico, in particolare nell’intelligenza artificiale, a un diritto umano fondamentale. Anche il nuovo vicepresidente J.D. Vance è della corrente. Nel 2017 era entrato a far parte, come partner di investimento, di Revolution Llc; una società di investimento creata da Steve Case, uno dei fondatori di Aol. E gli era stato assegnato il compito di espandere l’iniziativa Rise of the Rest, per far crescere gli investimenti nelle regioni sottoservite al di fuori delle bolle tecnologiche della Silicon Valley e di New York.
Nel 2019 è stato uno dei fondatori di Narya Capital: un fondo di venture capital a Cincinnati, con il sostegno finanziario di Thiel, Eric Schmidt e Marc Andreessen. Nel 2020, ha raccolto novantatré milioni di dollari per l’azienda. Assieme a Thiel e all’ex consigliere di Trump Darren Blanton, Vance ha investito nella piattaforma video online canadese Rumble, un’alternativa di destra a YouTube. Il leader del futuro dovrebbe essere lui.