La città buia sulla collina Trump o no, sull’Occidente continuerà ad aleggiare il fantasma etno-nazionalista

Qualunque sia l’esito delle presidenziali americane, la dialettica politica dei Paesi democratici continuerà a essere segnata da istanze identitarie di tipo sostanzialmente razzistico, tanto più forti quanto più evidente sarà, come oggi negli Usa, l’irreversibilità del processo di meticciamento etnico dell’Occidente

AP/Lapresse

Tra poche ore scopriremo se Donald Trump avrà vinto o perso la sua ultima battaglia contro l’America. Se l’avrà vinta, avrà ancora quattro anni per combatterla, pur senza reali possibilità di successo, perché gli Stati Uniti non potranno tornare a essere una fortezza bianca, giacché il loro destino è demograficamente segnato: entro la metà di questo secolo, i bianchi non ispanici scenderanno sotto il cinquanta per cento della popolazione.

Inoltre, per quanto impegno nichilista il tycoon profonda, gli Stati Uniti sembrano troppo grandi, ricchi e inafferrabili per diventare, ancorché temporaneamente, quella sorta di Ungheria a stelle e strisce che nell’immaginario Gop ha sostituito il mito reaganiano della «città spendente sopra la collina», un modello di società e di democrazia benedetta da Dio nella sua missione universale, proprio perché «le sue porte erano aperte a chiunque avesse la volontà e il cuore di arrivarci», e rimane «un faro e una calamita per tutti coloro che devono avere la libertà, per tutti i pellegrini da tutti i luoghi perduti che sfrecciano nell’oscurità, verso casa».

Se invece Trump perderà, come dovremmo sperare nelle lande europee del mondo atlantico, possiamo essere certi che quanto il suo fenomeno rappresenta – le convulsioni terminali, ma non reversibili, della resistenza occidentale al meticciamento e ai nuovi equilibri demografici globali – accompagnerà e insidierà ancora a lungo la storia politica delle democrazie di più antico lignaggio, senza poterne restaurare il passato, ma potendone terremotare il futuro con esiti imprevedibili, soprattutto in Europa.

Il trumpismo è stata la speranza e la scommessa dei nemici dell’Occidente: il rinnegamento dei principi della libertà da parte di quello stesso mondo, che ne aveva fatto un caposaldo dell’ordine politico globale e un fattore competitivo e vincente negli equilibri internazionali. Trump avrà in ogni caso continuatori ed epigoni – e se vincerà, solerti attendenti – perché l’attacco all’Occidente in nome di un Occidente pervertito e degradato a idealismo etnonazionalista continuerà presumibilmente a essere, fino al default demografico della sua base sociale e ideologica, una presenza stabile, legittima e perfino autorevole del dibattito politico democratico.

Il razzismo non è più un’ideologia estremistica e interdetta dall’accesso al discorso pubblico, ma ne costituisce una voce non solo ammessa, ma pure primaria, quando non egemone, in forma sempre meno addomesticata e dissimulata.

La destra trumpiana che combatte la sua crociata democratica contro la demografia e per la liberazione della Gerusalemme bianca e cristiana sarà dentro e fuori dagli Stati Uniti la destra del futuro, fino a che – ancora per poco, ma non per pochissimo – questa potrà sperare di vincere le elezioni persuadendo gli hillbilly del Midwest che la globalizzazione americana è in realtà un complotto contro l’America, e che il loro nemico sono i latinos che spingono alla frontiera texana, o convincendo gli ex colletti bianchi e blu del cronicario europeo che il rischio per il loro benessere e la loro sicurezza dipende da quei migranti, senza i quali tra pochi anni non esisterebbero neppure più una società, un’economia e un welfare europei.

Ha poco senso esorcizzare il pericolo di questa deriva fascista con appelli moralistici e irenistici all’estetica del melting pot o contrapponendovi quel contro-fanatismo woke e intersezionalista, che è la quinta colonna progressista del fascismo contemporaneo, il suo spauracchio preferito e il suo alibi permanente. I rivolgimenti demografici e migratori sono oggettivamente un fattore di squilibrio e pongono problemi reali di integrazione civile; la periferizzazione economica e politica che il declino demografico delle società occidentali inevitabilmente comporta, suscita naturalmente maggiori domande d’ordine e di protezione; la penetrazione islamista nella popolazione immigrata di prima e seconda generazione è un rischio endemico. E bisogna pure mettere in conto che per quanto si rafforzino garanzie e aiuti per i ceti bianchi impoveriti – come Biden ha fatto in maniera poderosa – le istanze identitarie e le sindromi psico-politiche (il senso di umiliazione, lo spirito di rivalsa, la sensazione di accerchiamento o di abbandono) rischiano di pesare assai più delle effettive condizioni economico-sociali.

È però altrettanto insensato pensare che una gestione realistica di queste tensioni implichi un qualche omaggio, o anche semplicemente una benigna negligenza, verso le presunte soluzioni trumpiane che non risolvono alcunché, che ovviamente non fermeranno i trend demografici né favoriranno processi di integrazione, ma sradicheranno i processi democratici dai loro fondamenti costituzionali liberali e li reimpianteranno – è già successo nella storia europea, non in quella americana – nelle sabbie mobili delle ideologie Blut und Boden, destinate inevitabilmente a inghiottire le istituzioni della società aperta e dello stato di diritto in una notte nera di arbitrio e violenza.

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