«A livello Ue oggi non abbiamo preso una posizione, abbiamo solo preso atto della decisione americana». Basterebbero queste parole, pronunciate con stanca amarezza dall’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell al termine di una lunga riunione del Consiglio Affari esteri lunedì scors, per dare la cifra di quanto poco l’Unione europea continui a contare sulla scena internazionale. «La storia giudicherà quello che abbiamo fatto quando abbiamo dovuto affrontare tempi difficili», ha detto ai giornalisti parlando del sostegno che i Ventisette stanno facendo sempre più fatica a garantire all’Ucraina aggredita. Se è così, Bruxelles rischia di passare alla storia per non essere stata all’altezza della responsabilità che le veniva richiesta nell’ora più buia per il Vecchio continente dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Dire che l’Unione europea non ha contribuito in alcun modo alla resistenza ucraina, che da mille giorni (celebrati all’Europarlamento con un collegamento in diretta da Kyjiv del presidente ucraino Volodymyr Zelensky) cerca di respingere l’aggressione russa iniziata il 24 febbraio 2022, sarebbe falso. Allo stesso modo, si peccherebbe di leggerezza nel dire che il contributo dei Ventisette alla difesa del Paese aggredito sia stato al massimo delle possibilità degli Stati membri.
Mille giorni di guerra che, in realtà, come ribadito dallo stesso Borrell, sono quattromila. Perché la guerra in Ucraina Vladimir Putin l’ha portata nel 2014, dieci anni fa, quando ha deciso che non poteva permettere che una nazione sovrana e indipendente potesse voltare le spalle a Mosca e iniziare il percorso di avvicinamento all’Europa e all’Occidente. Sono dieci anni che le truppe russe occupano illegalmente la Crimea e sostengono i separatisti nel Donbass.
La settimana di Bruxelles si è aperta con una doppietta ministeriale (Consiglio Affari esteri e Consiglio Difesa, rispettivamente lunedì 18 e martedì 19 novembre) in cui l’Ucraina è stato uno dei temi fondamentali, anche perché tre notizie del weekend precedente l’avevano mantenuta al centro dell’attenzione mediatica. C’erano gli strascichi di polemica contro la chiamata telefonica del cancelliere tedesco Olaf Scholz con il presidente russo Vladimir Putin, avvenuta venerdì (15 novembre), in cui il leader socialdemocratico ha «esortato» l’inquilino del Cremlino a porre fine al conflitto e ritirare le sue truppe dall’ex repubblica sovietica. Per Zelensky è stato come aprire un «vaso di Pandora», il suo ministro degli Esteri Andrii Sybiha ha parlato di «appeasement», e forti critiche sono arrivate anche dai partner europei di Herr Scholz, a partire dai baltici e da Varsavia, per l’assist offerto all’uomo forte di Mosca.
La seconda notizia è stata quella dell’ennesimo, feroce bombardamento che ha colpito non solo Kyjiv ma anche gli oblast’ di Odessa e Leopoli e il Donetsk, danneggiano gravemente le infrastrutture critiche e soprattutto la rete elettrica. Uno dei peggiori attacchi missilistici degli ultimi mesi secondo i media locali, il cui tempismo è stato letto da molti come la prova che Putin non è interessato a negoziare, nemmeno tenendo in considerazione le «nuove realtà territoriali». Cioè l’occupazione di circa un quinto del territorio ucraino.
Soprattutto, a tenere banco in questi giorni è stata la decisione (piuttosto tardiva) del presidente statunitense Joe Biden di rimuovere le restrizioni sull’utilizzo dei missili a lunga gittata Atacms per colpire obiettivi militari sul suolo della Federazione. È proprio quella decisione di Washington di cui gli Stati Ue hanno «solo preso atto», come ha detto Borrell, senza riuscire a darvi seguito con un impegno analogo, speculare e complementare. Questo perché, come in tutte le questioni relative alla sicurezza e alla difesa, anche quella sulle restrizioni all’uso dei sistemi d’arma a lungo raggio in territorio russo da parte degli ucraini è una decisione che spetta alle singole cancellerie. Che sul tema sono profondamente divise.
Per l’Italia, ha assicurato il vicepremier forzista Antonio Tajani, «la linea non cambia» e rimane dunque «quella dell’utilizzo delle nostre armi all’interno del territorio ucraino». Secondo il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, la rimozione delle restrizioni sugli Atacms «è un pericoloso errore che porta all’espansione del conflitto» – un commento che sembra modellato su quello del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, per cui il dietrofront di Biden equivale a «gettare benzina sul fuoco». Non va meglio in Germania, dove Scholz rimane inamovibile nel suo rifiuto di inviare a Kyjiv i missili Taurus e sta imperniando la sua campagna elettorale proprio sulla sua immagine di «moderato» rispetto alla crisi ucraina.
Dall’altra parte ci sono i baltici e gli scandinavi, che insieme ai polacchi sono i «falchi» europei quando si parla di contrastare Mosca. Il titolare degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, è sempre il più chiaro e perentorio nelle sue dichiarazioni: «Una pace attraverso la de-escalation è una strategia fallimentare» e c’è bisogno a questo punto di «una strategia che venga dalla forza», precisando che «quando parlo di forza, intendo armi». Del medesimo tenore anche l’intervento del suo omologo estone Margus Tsahkna, per il quale «nessuna telefonata rafforza la nostra posizione» visto che Putin «non ha intenzione di cambiare rotta». Se gli Stati Uniti rifiutassero di far entrare l’ex repubblica sovietica nella Nato, ha suggerito Tsahkna, toccherebbe agli europei inviare truppe sul campo per garantire la sicurezza di Kyjiv quando cesseranno le ostilità.
È ancora poco chiaro cosa faranno Parigi e Londra, che pure hanno fornito all’Ucraina missili a lungo raggio (Shadow Storm/Scalp) ma che non l’hanno ancora formalmente autorizzata a utilizzarli oltre confine. Questi sistemi d’arma contengono componentistica made in Usa e, dunque, le restrizioni imposte da Washington si applicavano anche nel loro caso. La Francia sta mantenendo la sua tradizionale ambiguità strategica, col ministro Jean-Noël Barrot che non esclude di «prendere in considerazione» l’opportunità di seguire l’esempio statunitense. Alla fine, l’esercito ucraino ha usato gli Atacms proprio nell’anniversario del millesimo giorno dall’invasione su larga scala, sparando contro degli arsenali russi localizzati nell’oblast’ di Bryansk.
La decisione di Putin di ritoccare per l’ennesima volta la dottrina nucleare nazionale in risposta all’attacco, rimettendo sul tavolo la possibilità di rispondere ad attacchi convenzionali sul suolo russo con armi nucleari tattiche, è stata derubricata da Borrell come «retorica irresponsabile».
Un’analisi pure condivisibile, che tuttavia nasconde una tragica impreparazione da parte europea in termini strategici, come riconosciuto dallo stesso capo della diplomazia europea. «Gli Stati membri hanno intrapreso un processo di disarmo silenzioso» negli ultimi anni, ha notato Borrell al termine del Consiglio Difesa di ieri. Una constatazione che cozza con la necessità espressa a più riprese dall’Alto rappresentante uscente (e non solo lui): «Dobbiamo essere più uniti se vogliamo parlare il linguaggio della forza», ha dichiarato, riconoscendo che «noi siamo in una transizione (istituzionale, ndr) ma il mondo non si ferma, al contrario accelera».
Accelerazioni nel contesto della guerra in Ucraina, ad esempio, sono l’impiego nell’oblast’ di Kursk di circa diecimila truppe d’élite nordcoreane o la produzione nello Xinjiang cinese di droni che poi la Russia fa piovere da Kharkiv a Leopoli e Odessa. Due fatti cui l’Ue non è in grado di rispondere efficacemente (oltre alle condanne retoriche), per l’incapacità di concordare agli ucraini il «permesso» di difendersi e per il terrore delle ritorsioni commerciali di eventuali sanzioni comminate a Pechino (come fatto contro Teheran e Pyongyang per il medesimo motivo, cioè il sostegno militare diretto a Mosca).
La misura delle difficoltà dei Ventisette si può evincere da un dato numerico: sempre ieri, Borrell ha annunciato che erano stati finalmente consegnati un milione di proiettili per artiglieria alle forze armate di Kyjiv. Un obiettivo che, però, doveva essere raggiunto a marzo, otto mesi fa, mentre l’esercito ucraino è a corto di munizioni almeno da questa primavera.
Si vis pacem para bellum, recita l’antica massima latina. Ma per prepararsi alla guerra servono soldi, molti soldi, oltre a un pensiero strategico che non si costruisce dall’oggi al domani. Negli ultimi trent’anni, l’Europa si è disinteressata della propria sicurezza, delegandola all’ombrello a stelle e strisce (nucleare e convenzionale). Lo ha detto Mario Draghi, lo ha ribadito Sauli Niinistö.
L’articolo 5 della Carta atlantica ha illuso il Vecchio continente di essere al riparo dalle minacce esterne, ma adesso sta per tornare alla Casa Bianca qualcuno che sembra poco disposto a difendere i membri Nato che non destinano il due per cento del loro Prodotto interno lordo alle spese in difesa.
Anche di questo hanno discusso i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia, Polonia, Regno Unito e Spagna riunitisi ieri a Varsavia nel formato «Weimar plus», dov’era ospite anche la prossima Alta rappresentante Kaja Kallas. Sul tavolo la questione dei bilanci militari dell’Ue: complessivamente sono quasi in linea con il target dell’Alleanza (attestandosi all’1,9 per cento del Pil comunitario), ma permangono divergenze abissali tra i singoli Stati.
Sul nodo dei finanziamenti (per sostenere gli investimenti nella nascitura industria militare europea ma anche per rimpinguare gli arsenali svuotati con le donazioni all’Ucraina), i ministri dei cinque Paesi Ue hanno riesumato la chimera degli eurobond per la difesa. Niente decisioni, naturalmente, ma è «una svolta importante» (parola del padrone di casa Radoslaw Sikorski) che anche la Germania, tradizionalmente opposta a qualsiasi emissione di debito comune a livello comunitario, abbia partecipato al dibattito.
Parlando di soldi, ci sono sempre i 6,6 miliardi di euro dello Strumento europeo per la pace (Epf), racimolati attraverso gli extraprofitti generati dagli asset russi immobilizzati ma bloccati dall’Ungheria. A Bruxelles si lavora per escogitare una modo che permetta di bypassare il veto di Budapest (magari ricorrendo a un meccanismo di contributi volontari) e far arrivare i fondi comunitari nelle casse di Kyjiv.
Lo scorso agosto è stata inviata la prima tranche da 1,4 miliardi, mentre il secondo assegno (1,9 miliardi) dovrebbe venire staccato per marzo o aprile 2025. C’è poi il prestito da quarantacinque miliardi concordato in seno al G7: circa diciotto miliardi verranno messi dall’Ue e saranno destinati, tra le altre cose, a investimenti strategici nell’industria militare ucraina, per consentirle di produrre in casa quello di cui ha bisogno senza doverlo elemosinare dagli alleati. Non saranno queste risorse a salvare il Paese aggredito dalla sconfitta totale, ma già riuscire a mobilitarle prima che passino altri mille giorni sarebbe un segnale positivo, ancorché tardivo.