Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. O in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.
Ai WeiWei ha sessantasette anni, lo sguardo bonario e un sorriso accogliente che rende difficile immaginarlo sotto il torchio della polizia cinese in carcere, nel 2011. Ai WeiWei ha atteso questa età per farsi la domanda delle domande: «Chi sono, io?». Non si tratta propriamente di una crisi di identità ma fa una certa impressione nell’epoca in cui perfino i preadolescenti vantano un’identità artistica professionale da creator digitali o da trapper. Sarebbe poco credibile che una star dell’arte mondiale da decenni avesse dubbi esistenziali così potenti. C’è di fatto una pluralità di definizioni con le quali il mondo lo descrive. È un uomo slash: artista concettuale/attivista/dissidente, ma anche architetto/urbanista, blogger/inchiestista, scenografo/sceneggiatore/paroliere, fotografo/fumettista. Oltre a essere uno dei ventiquattromila professionisti esperti mondiali di mattoncini di plastica (gli altri 23.999 probabilmente sono i dipendenti della Lego). Il fatto che gli vadano strette tutte queste job description è invece l’essenza del suo essere artista.
Sotto una Venere dormiente di Giorgione alta 3 metri e lunga 5, totalmente rifatta dall’artista proprio con i Lego, all’inaugurazione della mostra a Palazzo Fava, nel centro di Bologna, Ai WeiWei sintetizza a Linkiesta la sua risposta alla grande domanda: «Sono un individuo nato per esprimere le mie opinioni. Attraverso quelle realizzo chi sono. Finché posso comunicare non sono solo. Se non posso viaggiare, fare arte, se mi tolgono tutto ciò che mi appartiene, non mi importa».
Ai WeiWei ha voluto vedere che cosa pensasse in proposito l’Intelligenza Artificiale e in questo 2024 ha iniziato a porre domande sfidanti a ChatGPT. Ottantuno domande per ottantuno giorni, intervallo che rispecchia la durata della sua reclusione nelle patrie galere. La prima domanda è stata appunto «Who am I?». La risposta della macchina è stata la solita fredda zuppa di niente tipica dell’automa: «È una domanda filosofica e riflessiva che molte persone si pongono per esplorare la propria identità, il senso della vita o il proprio posto nel mondo. Può riguardare aspetti personali come passioni, valori, credenze e obiettivi». Ma proprio il fatto che questa fosse la risposta più elusiva del mondo ha spinto l’artista di Pechino a rispondere a se stesso con questa mostra, densa di opinioni sottoforma di reperti archeologici fake che parlano del nostro tempo, della società dei consumi di guerre e immigrazione. Opere-scenario, ironiche e pungenti come i cocci di ceramica che ha usato per pavimentare le sale.
Opere raffinate al punto da riuscire a bypassare il basso livello intellettuale degli addetti alla censura? A questa domanda Ai WeiWei ride, ma la risposta è no: «Siamo ancora tutti dentro il punto di svolta post pandemico che ha dato a tutti una lezione fondamentale. Quel tempo ci ha donato un periodo di esplorazione profonda di noi stessi. Ha evidenziato i nostri errori e quelli dei poteri che governano il Pianeta. Ma nella foga di riappropriarsi dei propri valori, ogni cultura politica ha pensato bene di dimenticarne alcuni, universali, e il più importante è l’umanità» E così, dice l’artista, siamo daccapo, con le ideologie, vecchie e nuove, che danno la linea e portano le guerre: «Quando la capacità di fare e costruire tipica dell’uomo si indirizza verso scelte violente o militari, al mondo sembra che non sia più possibile un futuro differente, ma è proprio qui il senso della lezione. La difesa dell’umanità è l’obiettivo, e non si può proseguire amplificando la diversità invece che il bene collettivo».
Un pensiero che a un primo impatto può apparire banale, religiosamente ecumenico, o, tale da far pensare male, perfino a un’autocensura. Invece l’artista è drammaticamente serio e mette in crisi i suoi interlocutori: «In Occidente c’è l’abitudine a pensare che la libertà e la democrazia siano i valori più importanti, ma a livello globale spesso non lo sono. E commettiamo l’errore di non guardare all’umanità che è il tratto comune a tutti in quanto insito nel genere umano». Come prendere queste parole, dette in uno dei periodi più divisivi di sempre? «Anche le democrazie possono portare al potere persone poco umane o poco inclini al rispetto reciproco, come vediamo spesso. Tanti politici esaltano le diversità tra persone invece che rispettarne la naturale evoluzione storica, politica, religiosa e linguistica».
Fiducia nell’uomo, sfiducia nel potere in quanto tale. È il collante che tiene insieme l’opera di Ai WeiWei, però dentro un’estetica evoluta e non conforme, simile a quella del regista di Lanterne Rosse, Zhang Yimou anche lui censurato molte volte dal 1991.
Forse questo è uno dei motivi per cui l’attivismo geopolitico di Ai WeiWei non è sfruttato da quel movimentismo occidentale che riflette la polarizzazione delle opinioni politiche e quindi spesso anche le conseguenti strumentalizzazioni. Così, per esempio, i progetti sull’immigrazione, con i gommoni appesi sulla facciata di Palazzo Strozzi a Firenze, o i quattordicimila giubbotti di salvataggio con i quali ha ricoperto la Konzerthaus di Berlino nel 2016 non hanno forse avuto quell’impatto politico e virale che hanno sempre le opere di Banksy sui temi più delicati. Ma c’è ancora da chiedergli di questa storia della democrazia sopravvalutata. Il suo giudizio tranchant è accettabile soltanto perché agli artisti è concesso tutto? «Non è una provocazione», dice, «perché lo sappiamo che la democrazia, nata con le migliori intenzioni oggi è più che altro una “dottrina della democrazia”, un concetto con il quale si è portati a empatizzare, ma non è un sistema che condivide le scelte con il popolo, bensì soltanto con i grandi gruppi di potere».
Il buco nero, secondo Ai WeiWei è l’assenza di verità, il potere tende a nasconderla, ad agire in modo non trasparente, a ovest come a est, a sud come a nord: «Si utilizza la scusa del free speech in modo strumentale, per ribadire un’apertura mentale e una tolleranza che però non ci sono davvero. Dicono che possiamo dire quello che vogliamo, però la censura si abbatte sulle domande, alle quali rimaniamo senza risposta, soprattutto su argomenti cruciali. Per questo mi sto interessando delle domande come chiavi manipolabili per l’addestramento dell’IA. Il problema riguarda anche le università che propongono programmi standard nel luogo che sarebbe adatto a fare tante domande e ottenere risposte per cambiare la nostra vita».
Non è chiaro nemmeno all’artista quale sia l’impatto del suo pensiero e delle sue opere sui più giovani. A volte l’impressione è che la sua provocazione sia travisata, come quando è stato criticato perché usa mattoncini di plastica non sostenibili. Ma lui ne fa una questione di “disciplina della saggezza”: «La sovrapproduzione di informazione, il suo consumo istantaneo e vorace non lascia il tempo di fare il salto verso la vera conoscenza e quindi verso la saggezza. È impossibile digerire ciò che si è letto, visto, ascoltato. Che sia vero o falso non importa più. Si ha solo l’illusione della conoscenza. Se dovessi lanciare un messaggio agli universitari direi loro di lasciar perdere i grandi media generalisti ma anche di smettere di essere costantemente sul web, piuttosto di concentrarsi sullo studio del passato e sullo scambio culturale con chi arriva da altri Paesi».
Il tema intercetta naturalmente il dibattito sulla cultura woke, la cui popolarità è prevista in netto calo per il 2025. Un trend di cui Ai WeiWei non riesce a dispiacersi, perché «recidere le proprie radici cedendo a una nuova ideologia che sembra trasmettere una nuova energia è comprensibile, ma anche molto pericoloso. Perché qui abbiamo a che fare con un approccio estremo e pazzesco che invece di unire le persone crea ulteriori divisioni e diffonde un atteggiamento ipocrita. Riconoscere diritti prima negati è importante ma non significa che lo si debba fare cancellando il passato e la tradizione».
Dopo questa sorta di auspicabile nuovo ordine fondato sull’umanità e sulla verità, l’artista cinese chiude la sua visione del futuro con il termine “responsabilità” che vorrebbe fosse il valore guida per tutti i politici, quelli cinesi in testa: «La Cina ha davanti un futuro importante e la possibilità di creare uno sviluppo industriale e tecnologico che porti benefici a tutto il mondo, ma adesso la sua priorità dovrebbe essere sentirsi responsabile di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti che rappresentano un popolo gentile e storicamente non aggressivo. Esserne responsabili vuol dire rispettarli, non abbiamo bisogno di nuove strategie militari o di basi armate in giro per il mondo». Dal 29 gennaio 2025 la Cina entrerà nell’anno del Serpente, animale che simboleggia molte cose buone, guarda caso proprio la saggezza, l’intuizione, la compassione.
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