Diversità standardIl contraddittorio desiderio contemporaneo di essere sé stessi

Come spiega Walter Siti in “Cera una volta il corpo” (Feltrinelli), la società celebra la diversità e stigmatizza il giudizio (come il body shaming), ma continua a valutare e discriminare in base all’apparenza, creando un paradosso tra libertà di espressione e conformismo

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I progressi della chirurgia e della biochimica hanno reso possibile assecondare il desiderio di ragazzi e ragazze che non sentono di appartenere al sesso che l’aspetto esteriore dei genitali aveva loro assegnato alla nascita; si sono aperti problemi etici, educativi, politici. Che cosa deve fare un genitore quando la somministrazione di ormoni potrebbe “sospendere” lo sviluppo sessuale del/della figlio/a dodicenne, in attesa che col procedere dell’età possa prendere una decisione più meditata? 

E la legge deve contemplare il diritto di un individuo a modificare i propri documenti ufficiali senza nessun intervento chirurgico o ormonale? Bastano la psiche e la volontà per decidere dell’appartenenza a questo o quel sesso d’affezione? Si stanno presentando anche casi interessanti di “transizione etnica”: il calvario di Michael Jackson per apparire bianco, o (controcorrente) la ex leader della comunità afroamericana di Spokane (nello stato di Washington) Rachel Dolezal, che ha dovuto ammettere di essere nata bianca da genitori di etnia caucasica ma dichiara di “identificarsi come nera”; ha ingannato tutti per anni parlando di un inesistente padre nero, presentandosi con fondotinta e capigliatura crespa si proclama trans- black – se ci sono i transexuals perché non i transracials

Ma la vita è un’altra cosa e (soprattutto) il corpo è maleducato. Molto più che nel paesaggio e nell’arte, la bellezza corporea è legata al desiderio di congiungersi – dunque è allo stesso tempo soggettiva e terribilmente monotona: un’ossessione su misura per ciascuno di noi.

Il desiderio erotico è figlio, come sappiamo, di Poros (l’espediente, la risorsa) e di Penia (la miseria, la mendicanza); in un guaz- zabuglio sospeso tra corpo e psiche, il desiderio sbava alla porta della bellezza e si presta a qualunque espediente pur di farsi aprire; non è lui a decidere chi rappresenti per lui la bellezza, è la bellezza già inscritta nelle sue sinapsi (o “intagliata nella pupilla”, come più poeticamente scrive Proust) che si lascia possedere e lo chiama, come la bruttezza lo respinge. 

Non possiamo imporci di desiderare un corpo piuttosto che un altro solo perché sarebbe politicamente più corretto: se il prognatismo facciale, mettiamo il caso, ci ripugna, o troviamo ridicola l’effeminatezza, non c’è considerazione culturale che possa provocarci un’erezione o qualunque altra forma di entusiasmo fisico. Certo il contesto culturale conta molto, non è detto che di una persona debba eccitarci soltanto il corpo; c’è la mente, lo spirito, la “persona” – anzi, insistere sul corpo è considerato rozza- mente volgare se non fascista: esistono i sapiosessuali (per la fortuna dei brutti) ed esiste il fascino del weird – il bizzarro, il non conforme, la big mama e il chubby, il malato, il deperito. 

Ma nel profondo, anche se ci causa vergogna, anche se detestiamo le esternazioni dei retrogradi e vorremmo far tacere le nostre reazioni istintive, è il desiderio a gridarci con quali forme corporee vorremmo congiungerci: nell’infinito emporio (di merci, ebbene sì, i corpi sono anche oggetti fisici) degli umani possibili, la nostra libido opera, per poterli desiderare, una selezione crudele – e se per ragioni più nobili non vogliamo ascoltarla, la castrazione la pagheremo.

Si apre una contraddizione tra l’esporsi per sedurre e il chiudersi per non essere feriti: da una parte il nostro è il tempo dell’esibizione corporea senza pudore, dall’altra come dicevamo è il periodo storico in cui si stigmatizza il body shaming

Di nessuno è più consentito dire che sia “brutto”, ciascuno è bello a suo modo, quindi logicamente di nessuno si potrebbe più dire che è “bello”; ma la “bella presenza” continua a essere un elemento discriminante in quell’enorme casting in cui ormai si è trasformato il gio- co dell’apparenza sociale. 

Vivo nel centro di Milano e le creature che spesso mi vengono incontro usano il corpo come un’arma contundente: nudità in bella vista anche d’inverno, capigliature arcobaleno, spigoli aggressivi – ma i commenti ironici, o i fischi d’approvazione e gli sguardi concupiscenti, sono fortemente sconsigliati. Guardami ma non osare giudicarmi, io mi offro così soltanto per piacere a me stesso/a. 

Un tempo l’alta moda ispirava le sartine di paese o di periferia, che ricopiavano i modelli e poi li confezionavano a basso prezzo per il popolo; ora è l’alta moda che si ispira alla strada in uno scambio ipocrita – il desiderio di massa ha trasformato i singoli corpi in manichini di se stessi. Ciascuno si comporta come se il proprio corpo fosse una piattaforma ricreativa sperimentale, come se il Narciso del mito avesse visto riflessa nell’acqua la propria immagine già rettificata e massificata dai social (cioè da un supposto desiderio collettivo-commerciale). 

“Essere se stessi”, il mantra dei nostri giorni, se lo decliniamo sul corpo diventa “essere quel corpo che gli altri possono valutare come la mia versione migliore”. L’identità inconfondibile non è mai stata così settorializzata e catalogata, più urliamo di essere tutti diversi più ci uniformiamo al dovere di esserlo – stretti nella nostra casella, ci proponiamo come modelli di diversità.

Come se ciascuno sperasse ardentemente che un qualche Alessandro Magno gli venisse a chiedere se può fare qualcosa per lui (o magari per them), per potergli rispondere che non gli occorre nulla. Tutt’al più un selfie.

Tratto da “C’era una volta il corpo” di Walter Siti, Feltrinelli, 160 pagine, 16,15 euro

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