Asse della fragilitàCon la débâcle siriana crollano i sogni di egemonia dell’Iran sul Medio Oriente

Negli ultimi mesi la Repubblica Islamica e i suoi proxy non hanno saputo reggere il confronto militare con Israele. La caduta di Bashar al Assad potrebbe segnare l’inizio della fine per le forze illiberali e antidemocratiche guidate da Teheran

AP/Lapresse

La fine del regime siriano di Bashar al Assad, nella notte fra il 7 e l’8 dicembre, è un duro colpo per l’Asse della Resistenza. L’ennesimo nell’ultimo anno. Il castello di carte realizzato dalla Repubblica Islamica in Medio Oriente sta venendo giù pezzo dopo pezzo. Alle difficoltà di Hamas ed Hezbollah nel conflitto con Israele, ora si aggiunge la débâcle siriana e non si escludono ulteriori crepe nei prossimi giorni. Siamo forse al tramonto dell’epoca in cui l’asse filoiraniano rappresentava la forza più influente nella regione. E adesso Teheran è sempre più isolata in Medio Oriente.

«Al momento, gli unici membri dell’asse iraniano rimasti intatti sono i gruppi Hashd Shabi in Iraq e gli Houthi nello Yemen, entrambi sottoposti a forti pressioni interne, specialmente i primi», spiega a Linkiesta Alex Vatanka del Middle East Institute. «Inoltre, negli ultimi dodici anni, l’asse ha perso seimila combattenti, tra cui molti iraniani. Per questi motivi, è davvero giunto il momento che il regime di Teheran ripensi alla sua strategia regionale, se non vuole che la sua sopravvivenza sia messa a rischio».

La notizia dell’avanzata dei gruppi ribelli anti-governativi della settimana scorsa era arrivata con forte sorpresa dagli iraniani. A Teheran, come del resto da qualunque altra parte, non si aspettavano che in appena undici giorni il regime alleato di Assad si sarebbe sciolto come neve al sole. E così gli iraniani erano corsi ai ripari, nel tentativo di salvare il salvabile. Venerdì 6 dicembre la Repubblica Islamica aveva iniziato a evacuare i suoi comandanti militari dalla Siria, trasferendoli in Iraq e in Libano. Poi era stato il turno delle Forze Qods, il braccio operante all’estero del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie. Quindi i diplomatici, e infine i civili.

«L’Iran sta iniziando a evacuare le sue forze e il suo personale militare perché non può combattere come forza di supporto se l’esercito siriano stesso non vuole combattere», aveva detto al New York Times Mehdi Rahmati, importante analista e consigliere della Repubblica Islamica. «L’Iran si è reso conto che non può gestire la situazione in Siria in questo momento con qualsiasi operazione militare e questa opzione è fuori discussione». In queste parole si misura tutta l’impotenza del regime di Teheran, fortemente indebolito da un anno di conflitto con Israele e danneggiato nel proprio status, tanto esibito, di solida potenza regionale.

E ora la “ritirata” dalla Siria complica i giochi per gli stessi ayatollah. Di fatto, «perdendo il controllo sul valico di frontiera Al Qaim-Al Bukemal tra l’Iraq e la Siria, l’Iran rinuncia al collegamento con Hezbollah, suo braccio armato contro Israele in questi mesi», dice a Linkiesta Luigi Toninelli dell’Ispi. «La perdita del valico è la scelta più inspiegabile compiuta negli ultimi giorni da Teheran, che nelle prossime settimane vedrà quasi sicuramente sbriciolarsi l’asse di cui è alla guida».

Il dietrofront deciso da Teheran manda all’aria oltre quarant’anni di relazioni proficue con Damasco, avviate all’indomani della Rivoluzione Islamica in Iran da Hafez al Assad, il padre di Bashar, e Ruhollah Khomeini, Guida Suprema iraniana. L’accordo tra i due Paesi, all’epoca entrambi isolati sullo scenario internazionale, prevedeva che l’Iran fornisse armi e supporto logistico al regime dinastico degli Assad per tutelarne la sopravvivenza, e in cambio potesse beneficiare del territorio siriano come corridoio per armare le milizie sciite di Hezbollah in Libano contro Israele.

In virtù di questa partnership collaudata, Bashar al Assad era riuscito a mantenersi al governo per ventiquattro anni di fila, conservando il potere anche durante la rivolta armata scoppiata nel 2011, poi deflagrata in una guerra civile. Tra il 2013 e il 2019, infatti, gli Hezbollah filoiraniani e i Pasdaran guidati dal generale Qassem Suleimani – affiancati dall’aviazione russa (dal 2015) – avevano dato manforte all’esercito di Damasco. Negli anni, Assad e i suoi sostenitori erano riusciti a riconquistare buona parte dei territori occupati dagli oppositori al regime, portando il conflitto nazionale in una fase di stabilità apparente. Poi nel gennaio 2020 Suleimani era stato ucciso a Baghdad da un raid statunitense e la Repubblica Islamica si era scoperta vulnerabile.

Tre anni e dieci mesi dopo, Hamas aveva attaccato Israele, trascinando l’Iran e le varie milizie armate nella regione in un doloroso vortice di disfatte. In oltre quattordici mesi di scontri con Israele, sia il partito-milizia palestinese sia Hezbollah sono stati fortemente indeboliti (oltre che decapitati dei loro leader). E anche l’Iran non ne è uscito affatto bene. Incassando una serie di batoste dal rivale storico, Teheran si è mostrata al mondo per quello che è: una tigre di carta. Si pensi, ad esempio, all’episodio incipitario delle rappresaglie aeree con Israele: l’attacco sull’ambasciata iraniana di Damasco (ironia della sorte) dello scorso primo aprile. In quell’occasione Israele bombardato e distrutto l’edificio e uccidendo sedici persone, tra cui diversi ufficiali del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie.

A quel punto gli ayatollah avevano promesso una «punizione severa», ma poi la montagna aveva partorito un topolino: la risposta si era consumata in trecento ordigni tra droni, missili balistici e missili da crociera che non hanno fatto vittime tra gli israeliani – era stata provvidenziale nella circostanza l’azione protettiva dell’Iron Dome di Israele. Una scena analoga si era presentata sei mesi dopo, il primo ottobre, quando dall’Iran erano partiti circa duecento missili balistici verso lo Stato ebraico, come risposta per le uccisioni di Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas (eliminato proprio a Teheran da un attacco israeliano), e Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah. Anche in quel caso quasi tutti gli ordigni erano stati neutralizzati dallo scudo israeliano e c’era stata solo una vittima (un palestinese di Gerico).

Episodi che mostrano la crisi di credibilità di cui è affetta la Repubblica Islamica, ormai da diversi mesi a questa parte. La caduta di Damasco è l’ultimo sintomo di una malattia, una debolezza militare e politica, a lungo incubata nel corpo del regime. E di cui adesso gli ayatollah dovranno prendersi cura.

Due i possibili rimedi per la guarigione, secondo gli analisti. Il primo è quella di adottare un atteggiamento remissivo, di accettazione della perdita di influenza in Medio Oriente. Un’opzione che certo vanificherebbe una volta per tutte l’Asse della Resistenza (o almeno lo congelerebbe per un po’) ma che agevolerebbe i negoziati con Trump, prossimo alla Casa Bianca. Il secondo, invece, è ben più pericoloso per l’Occidente: l’Iran potrebbe mettere mano alla dottrina nucleare e dotarsi del temuto ordigno, nel tentativo (disperato) di ripristinare la deterrenza nei confronti di Israele e recuperare così quello status politico a livello regionale che ha smarrito da tempo.

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