Strada senza uscitaLa crisi del macronismo è diventata la crisi di tutta la Francia

L’azzardo del presidente dopo le Europee non ha pagato, le elezioni di giugno e luglio hanno favorito l’estrema destra di Le Pen, e ora non si vede una soluzione alle difficoltà strutturali di Parigi

AP/Lapresse

«Macron ha perso il filo della sua presidenza». Impietoso, Le Monde segnala il problema di fondo che la crisi politica francese evidenzia col fallimento dell’intero progetto politico del presidente: la scomposizione del bipolarismo e la nascita di una nuova forza, non centrista ma centrale. Su questa prospettiva innovativa, e sulla sua freschezza personale, Emmanuel Macron ha stravinto le elezioni del 2017, ha costruito i suoi governi con ministri sia ex gollisti sia ex socialisti, ed è stato riconfermato due anni fa. Palese era il suo tentativo di replicare il modello di Charles de Gaulle – che alla fine degli anni Cinquanta è entrato come un gigante nella palude immobile del parlamentarismo, ha sfarinato destra, centro e sinistra e fondato un movimento che è durato cinquant’anni.

Ma Emmanuel Macron, qui il suo errore, non ha fondato un movimento, non ha affatto radicato il suo consenso personale sul territorio, soprattutto, non ha costruito un quartier generale come aveva fatto De Gaulle, che lo aveva costruito con personaggi di altissimo profilo come Georges Pompidou, Jacques Chaban Delmas e André Malraux.

Emmanuel Macron ha puntato tutto solo su sé stesso, ha cambiato primi ministri, ha fatto di tutto per non far emergere un successore e non si è curato di radicare il movimento sul territorio. E ha fatto un errore fatale, grossolano.

Quando le urne delle elezioni europee nel giugno scorso hanno certificato la rinascita piena del bipolarismo estrema destra/estrema sinistra, Macron ha giocato d’azzardo, da solo, senza neanche consultarsi con il braccio destro di quella fase, il primo ministro Gabriel Attal; ha sciolto l’Assemblée Nationale e indetto elezioni in un mese. Non si è mai capita la ratio di quella mossa, se non quella di scavare il terreno sotto i piedi di una trionfante Marine Le Pen, ma alla cieca, con un azzardo.

Il risultato di quella mossa da giocatore di poker, non da statista, è stato disastroso, come si può certificare oggi. Ha funzionato il blocco nazionale contro Marine Le Pen, che grazie al meccanismo del secondo turno non è riuscita vincere. Ma il prezzo pagato è insostenibile: le urne hanno decretato una nuova composizione della Assemblée Nationale che, grazie all’avanzata del partito di Marine Le Pen, è stata destinata alla paralisi totale, all’impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza di governo. In più, ha segnato la perdita di un centinaio di deputati tra i partiti che sostengono il presidente.

Il dogmatismo settario della sinistra ha approfondito il disastro. L’indisponibilità del segretario socialista Olivier Faure a ragionare su un governo di larghe intese per pregiudiziali massimaliste ha costretto il presidente a varare un governo di ripiego affidato a Michel Barnier, un gentiluomo dalle spiccate e solide doti di mediazione. Ma nell’arco di poche settimane, mentre via via iniziava la presa di distanza dal presidente da parte dei suoi tradizionali consiglieri, il governo minoritario si è arenato sulle secche del bilancio e della spesa sociale, come non poteva non accadere.

Non solo, durante la breve vita di questo esperimento, i francesi hanno toccato con mano che non Emmanuel Macron, ma Marine Le Pen aveva e ha il controllo del futuro dell’esecutivo, era ed è lei e solo lei a deciderne le sorti. Una prova di forza che l’ha ancora più messa al centro dell’agone politico. E la crisi di governo si è avvitata su sé stessa sino a questo esito.

La Francia ora è a rischio shutdown, non si sa come approvare la legge di bilancio, quale governo verrà nominato, come arrivare al luglio 2025, prima data che la Costituzione indica per nuove elezioni anticipate. Lo spread vola e le ali di Macron in Europa e sulla scena internazionale sono tarpate dalla sua estrema debolezza e confusione in patria. Il tutto, in parallelo con la sbiadita fine del governo di Olaf Scholz e le elezioni anticipate in Germania. La coppia franco-tedesca sguazza dunque disordinatamente in una palude di incertezze.

Il risultato delle scelte di Emmanuel Macron è sotto gli occhi di tutti, tanto che non è più un tabù parlare o invocare pubblicamente in Parlamento le sue dimissioni. Dimissioni che con tutta probabilità non verranno date, così come in un qualche modo, magari con qualche trucco procedurale probabilmente si approverà una legge di bilancio raffazzonata.

Ma il problema vero, di fondo, è che non si vede quale sblocco potrà avere questa crisi, se non una prossima vittoria dell’estrema destra, vuoi con Marine Le Pen alla guida o – se lei verrà condannata e interdetta, come è possibile – con il suo braccio destro Jordan Bardella. È molto difficile infatti che, nonostante i saggi sforzi del riformista Raphaël Glucksmann, la sinistra non venga condizionata e penalizzata nelle urne dal goffo estremismo dogmatico di Jean-Luc Mélenchon e dello stesso segretario socialista Olivier Faure. François Hollande, eletto in Parlamento, sta brigando per riproporsi come leader di una sinistra riformista, ma nessuno può dimenticare che è stata la sua presidenza a distruggere letteralmente il partito socialista e a ridurlo ai minimi termini. Alla fine dei conti, non si può che prendere atto della crisi del progetto politico di Emmanuel Macron, da lui proiettata e ampliata in crisi sistemica dell’intera Francia. Un esito disastroso anche per l’Europa.

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