Libertà illusoriaLa scarcerazione di Narges Mohammadi, e l’immobilismo dell’Iran

Il regime di Teheran non è diventato meno illiberale come vuole far credere, nella Repubblica islamica nessuno può sentirsi al sicuro: solo a novembre centoquarantaquattro persone, tra cui un uomo con disabilità intellettive, sono state giustiziate nelle prigioni degli Ayatollah

AP/Lapresse

Non fatevi ingannare, il regime iraniano resta un carcere a cielo aperto. Questa è in estrema sintesi l’interpretazione dei dissidenti e della diaspora davanti alla scarcerazione temporanea del premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi per gravi problemi di salute.

Una lettura superficiale degli eventi dei giorni scorsi potrebbe indurre a pensare che si sia aperto uno spiraglio di maggiore libertà nella teocrazia islamica perché è stato scarcerato anche Toomaj Salehi, il rapper simbolo e colonna sonora della ribellione Donna, Vita, Libertà. E invece non è affatto così. La legge che dovrebbe entrare in vigore il 13 dicembre per proibire lo “svelamento” delle donne rappresenta un nuovo attacco di feroce repressione per cercare di fermare i quotidiani atti di disobbedienza civile.

Infatti un’altra autorevole dissidente, anche lei rilasciata per problemi di salute, l’avvocata e premio Sacharov 2012 Nasrin Notudeh, ha lanciato una petizione insieme alla scrittrice  Sedigheh Vasmaghi per chiedere di abrogare una legge che hanno definito «medievale» per punire chi si toglie lo hijab. Verrà annunciata il 13 dicembre e sembra ispirata alle norme talebane dell’Afghanistan.

Certo, vedere il rapper Toomaj di nuovo libero che su Instagram ringrazia tutti quelli che lo hanno sostenuto con un fiore verde, colore della bandiera dell’Iran, potrebbe far credere che qualche diritto sia stato rispettato ma è un’illusione ottica. Come ci fa notare l’attivista Leyla Mandrelli, attenta osservatrice e zelante traduttrice di tutto quanto accade nell’infosfera riguardo alla ribellione contro i mullah: «Semplicemente Toomaj aveva espiato la condanna e il suo avvocato ha chiesto la liberazione ma appena è uscito ha ricevuto minacce di morte. Se tace, lo lasceranno in pace ma se riprende ad accusare il regime può essere arrestato di nuovo, come è già successo l’anno scorso quando, liberato, è stato accusato nuovamente (di diffusione della corruzione sulla terra, ndr) e condannato a morte. Dopo una mobilitazione internazionale, la condanna è stata sospesa ma resta un bersaglio, come tutti i dissidenti».

Ora il mondo libero guarda alla temporanea sospensione della pena del premio Nobel per la Pace 2023, Narges Mohammadi, con un afflato di speranza, ma le tre settimane concesse per curarsi non sono considerate sufficienti, date le condizioni critiche in cui si trova, e gli avvocati, la fondazione creata in suo nome, gli attivisti, il Comitato Nobel, l’Onu chiedono che resti libera permanentemente. Richiesta ardua perché lei, appena è stata liberata, ha urlato lo slogan della ribellione Donna, Vita, Libertà. E poi ha postato la sua immagine da salotto di casa: capelli sciolti, vestito a fiori, tutore alla gamba destra e una fotografia di Masha Jina Amini.

Un volto radioso, sebbene il tumore esportato, le patologie cardiologiche, che fanno venir voglia di crederci perché è da quel salotto che ha registrato il suo ultimo video, prima di tornare in prigione e lei, con i gesti iconici, ci ha trasmesso sempre la sensazione di avere un superpotere che non può essere fiaccato.

E invece nella Repubblica islamica nessuno può sentirsi al sicuro. Come ha fatto notare il direttore di Iran Human Rights, lo scienziato Mahmood Amiry-Moghaddam che da Oslo dove vive osserva: «Il numero di esecuzioni da parte delle autorità iraniane è aumentato drasticamente all’ombra del conflitto e dell’attenzione della comunità internazionale sulle crisi mediorientali».

Nel mese di novembre centoquarantaquattro persone, tra cui quattro donne, dodici cittadini afghani, un ebreo-iraniano e un uomo con disabilità intellettive sono state giustiziate nelle prigioni iraniane. In media, più di quattro persone ogni giorno. E nel mese di ottobre, la Repubblica Islamica ha eseguito centosessantasei condanne capitali, il numero più alto di esecuzioni mensili dal 2007 ad oggi. E se non bastassero questi atroci numeri, ce ne sono altri che spiegano bene le folli intenzioni dei mullah: i settantuno articoli della legge talebana «a sostegno della famiglia attraverso la promozione della cultura dell’hijab e della castità» approvata dal consiglio dei guardiani nell’ottobre scorso dopo l’esame del Parlamento. Ossia norme che non solo rafforzano il controllo sulla vita delle donne con la reclusione fino a 6 anni e settantaquattro frustate ma minacciano anche le imprese e le istituzioni che non applicano misure discriminatorie, prevedendo multe o chiusure. La legge darà ancora più potere di intervento e controllo da parte dei Pasdaran, della polizia e della magistratura per perseguire le violazioni non solo da parte di donne ma anche di bambine e adolescenti. Istigando anche alla delazione da parte di conducenti di taxi e vetture che sono obbligati a denunciare le trasgressioni. Una legge che sembra ispirata al modello afghano di apartheid di genere, impensabile in Iran dove il processo di svelamento sembra inarrestabile quanto capillare.

E invece in un regime piegato dalla crisi economica, l’inflazione, la corruzione, con blackout energetici di tre ore al giorno, la repressione diventa sempre più feroce. Che nessuno si lasci ingannare dunque: la scarcerazione di Toomaj Salehi e quella temporanea di Narges Mohammadi sono luci intermittenti di una battaglia epocale contro un regime fondamentalista terrorizzato dalle donne che lo sfidano ogni giorno a capo scoperto.

 

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