MantecaturaAl risotto manca il marketing

Una delle più autorevoli testate al mondo ne scrive l’elegia, ma mette anche nero su bianco un’evidenza: il riso all’italiana non è ancora entrato nell’immaginario oltre confine

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Passando in rassegna gli articoli – e qui è proprio il caso di dirlo – di food&wine usciti nella settimana, salta all’occhio un lungo pezzo apparso sul New Yorker. Protagonista: il risotto. Perché la rivista più autorevole e curata della Grande Mela, che ha ospitato e ospita alcuni dei più grandi scrittori e scrittrici, giornalisti e giornaliste, americane e del mondo, si occupa con un articolo molto lungo e documentato di tessere l’elogio di uno dei piatti principali della cucina italiana?

Anthony Lane, l’autore, non è esattamente il critico enogastronomico che ci si aspetta, anzi. Sul New Yorker ha sempre scritto principalmente di cinema, ma con questo pezzo – intitolato nientemeno che “The Secret History of Risotto” – Lane dipinge un dettagliatissimo omaggio al risotto, approfondendo non solo la storia, ma anche i passaggi chiave della ricetta (il brodo, la mantecatura, l’onda), gli ingredienti (uno su tutti: il burro) e alcune delle versioni più celebri e non (dal risotto giallo al risotto con l’Amarone).

La storia, sia quella di Lane che quella del risotto, parte da Venezia, per poi tracciare un arco che comprende un po’ tutto il Nord Italia, arrivando fino al Sud, dove si trasforma e abbandona l’ampio utilizzo di burro e latticini. Osservare con gli occhi di uno straniero un piatto che in Italia è preparato, con esiti più o meno fortuiti, in tutte le cucine è come vivere un’esperienza ultraterrena in cui spii da un’altra dimensione una situazione che conosci alla perfezione: l’entusiasmo per “l’onda del risotto”, l’utilizzo di termini che per un lettore americano devono essere così appealing (attraenti) – come “mantecatura” – e la (lunga) narrazione di come preparare un soffritto e aggiungere il burro.

Ma allora perché all’estero non ha avuto lo stesso successo della pizza e della pasta al pomodoro? E perché, soprattutto, non è così associato all’italianità, ormai un brand del cibo a sé stante, che promette e permette milioni di ricavi all’anno a chi ne seguo i crismi dorati?

Vediamo intanto le regole del risotto per Lane, che sono cinque:

  1. il riso migliore è quello della valle del Po (Carnaroli, Arborio e Vialone Nano);
  2. nessun elemento nel risotto dovrebbe essere più largo di un granello di riso (questo lo dice Ruth Rogers, co-fondatrice del River Café, che a quanto pare serve il miglior cibo italiano di Londra, ma tant’è);
  3. è solitamente servito come primo piatto, precisazione doverosa per un’audience americana, per cui la consequenzialità di un pasto con antipasto-primo-secondo rimane tuttora un mistero;
  4. il risotto non è per chi ha fretta: puoi essere il miglior cuoco del mondo, ma almeno venti minuti sono necessari a un buon risotto per essere davvero buono;
  5. se possibile, va preparato a casa. Anche qui Lane mette nero su bianco per gli amici anglofoni una realtà che in Italia è quasi legge: il risotto nel novanta per cento dei casi è più buono il giorno dopo. O quello dopo ancora, quando i rimasugli possono diventare polpette, o riso al salto, o frittelle.

Scrivendo questo (e molto altro), anche Lane si chiede perché il risotto è ancora così sottovalutato. E lo fa con un’espressione che di certo fa capire perché lavora al New Yorker da più di una decade. «Next to the rivers of food that flood the modern appetite, risotto is a minor tributary», che possiamo liberamente tradurre in: di fianco ai fiumi di cibo che sommergono l’appetito moderno, il risotto è un affluente minore.

Per perorare la sua causa, nelle (tante) righe successive, Lane scrive una lettera d’amore al piatto in cui delinea (anche) davanti agli occhi del lettore perché il risotto non è ancora entrato a far parte del gotha del made in Italy all’estero. È tutta una questione di marketing: lui non ce lo dice chiaramente, ma le ragioni con cui lui sostiene la causa sono tutte lì.

Sì è vero, il risotto è estremamente malleabile e regione (a volte provincia, a volte città) che vai, risotto che trovi. Un ottimo punto per chi vuole scoprire sempre un accostamento, una combinazione di ingredienti e sapori nuova, ma è anche il terrore di ogni agenzia di marketing sul pianeta: non c’è un concetto semplice da far passare con uno slogan e non c’è una foto univoca da far entrare nell’immaginario comune. Dov’è la mia pizza con pomodoro, basilico e mozzarella?

Che poi anche dietro a tutto questo ci sia molto altro è un altro discorso ancora, l’importante ai tempi di Instagram e TikTok è che il messaggio sia semplice, diretto e possibilmente stia in una slide, orizzontale ma se è verticale è meglio. Nell’epoca del tutto e subito, la quarta regola di Lane sul risotto diventa un peso più che un indice di qualità: dover aspettare, mescolare, prestare attenzione per preparare un piatto ne deve valere davvero la pena.

Anche i ristoranti “specialistici” hanno risentito di questa mancanza di fascino e Lane ne cita due, uno a New York City (Risotteria) e uno a Londra (All’onda) che hanno chiuso recentemente. In Italia questo problema non c’è, anche se trovare un ristorante specializzato solo in risotti non è facile come trovare un ristorante specializzato solo in noodlescinesi, e già per questo ci dovremmo fare delle domande sulla forza di comunicazione del risotto.

La conclusione di Lane è semplice e allo stesso tempo racchiude l’essenza del perché il cibo è e rimane l’unico linguaggio universale: il giornalista è sempre stato ossessionato dal risotto perché gli ricorda un momento e una persona importante della sua vita. La “nostra” conclusione è che il risotto, allo stesso modo di tanti altri piatti della nostra tradizione, ha uno storytelling che – come Lane ci presenta – è pronto per essere esportato. Basta trovare qualcuno che decida il messaggio, prepari il visual e trovi uno slogan d’effetto. Siamo davvero sicuri di volerlo?

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