Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse.
Una settimana prima delle elezioni presidenziali, nel suo comizio all’Ellipse (un parco di Washington nei pressi della Casa Bianca, ndr), Kamala Harris ha parlato con disprezzo di Donald Trump, definendolo un’aberrazione che non rappresenta l’America. «Noi non siamo così», ha dichiarato.
Ma è saltato poi fuori che, forse, noi americani siamo invece proprio così. O, quantomeno, che lo è la maggior parte di noi.
L’ipotesi che Trump rappresentasse un’anomalia che sarebbe stata finalmente consegnata alla cenere della storia è stata spazzata via nella notte dello scrutinio da una corrente rossa che ha attraversato gli Stati che si ritenevano in bilico – e quella stessa corrente ha spazzato via anche quelle convinzioni sull’America che erano state a lungo coltivate dalle élite che controllavano sia l’uno sia l’altro partito.
L’establishment politico non può più liquidare Trump come un’interruzione temporanea della lunga marcia del progresso, come un accidente della storia che nel 2016 si era in qualche modo intrufolato nella Casa Bianca grazie a una stravagante e irripetibile conquista di un numero sufficiente di grandi elettori. Con la sua vittoria in rimonta nella corsa per riconquistare la presidenza, Trump si è affermato come una forza trasformativa capace di rimodellare gli Stati Uniti a sua immagine e somiglianza.
La delusione dei populisti per la direzione in cui stava procedendo il loro Paese e la loro rabbia nei confronti delle élite si sono rivelate più profonde di quanto molti, in entrambi i partiti, pensassero. E la campagna di Trump guidata dal testosterone ha sfruttato le diffuse resistenze davanti all’idea che alla presidenza fosse eletta per la prima volta una donna.
Fermo restando che decine di milioni di elettori hanno comunque votato contro di lui, Trump ha intercettato anche questa volta i sentimenti di molti altri elettori, che ritenevano che il loro Paese – posto sotto assedio economico, culturale e demografico – si stesse sgretolando.
Per contrastare questo sgretolamento, quegli elettori hanno ratificato con il loro voto il ritorno del loro sfacciato campione di settantotto anni, che è disposto a sovvertire le consuetudini e a intraprendere azioni radicali anche se ciò offende la sensibilità di qualcuno o viola le norme tradizionali. E hanno messo da parte tutti i dubbi che potevano avere riguardo al leader che avevano scelto di sostenere. Di conseguenza, per la prima volta nella storia, gli americani hanno eletto presidente un pregiudicato. E hanno riconsegnato il potere a un leader che aveva cercato di ribaltare gli esiti delle precedenti elezioni presidenziali, aveva invocato la “liquidazione” della Costituzione se questa gli avesse impedito di tornare alla Casa Bianca, aveva mostrato l’aspirazione a comportarsi come un dittatore fin dal suo primo giorno in carica e aveva giurato di infliggere una «punizione» ai suoi avversari.
«L’America di Trump diventa la vera America», ha detto Timothy Naftali, docente della New York University che si occupa della storia della Presidenza. «Francamente, il mondo penserà che se quest’uomo non è stato escluso dalla competizione, dopo tutto quello che è successo il 6 gennaio 2020 con l’incredibile risonanza che ha avuto in tutto il pianeta, allora questa non è più l’America che conoscevamo».
Per gli alleati di Trump, la vittoria elettorale conferma la sua tesi secondo cui Washington ha perso il contatto con la gente e l’America è un Paese ormai stanco delle guerre all’estero, dell’immigrazione eccessiva e della correttezza politica di stampo “woke”.
«La vittoria di Trump nelle Presidenziali racconta quanto si sentano profondamente emarginate quelle persone che ritengono di essere state troppo a lungo in una solitudine culturale, quanta fiducia esse ripongano nell’unica persona che ha dato voce alla loro frustrazione e quanto Trump sia capace di porle al centro della vita americana», ha dichiarato Melody C. Barnes, direttrice esecutiva del Karsh Institute of Democracy dell’Università della Virginia ed ex consigliera del presidente Barack Obama.
Invece di rimanere sconcertati per le clamorose e rabbiose dichiarazioni di Trump – che avevano a che fare con temi come la razza, il genere, la religione, l’origine etnica e, soprattutto, l’identità transgender – molti americani si sono trovati d’accordo con lui. Invece di sentirsi offesi a causa delle sue bugie sfacciate e delle sue folli teorie complottiste, molti americani lo hanno trovato una tipo genuino. E, invece di liquidarlo come un criminale che era già stato ritenuto da vari tribunali un truffatore, un imbroglione, un abusatore sessuale e un diffamatore, molti americani hanno preso per buona la sua affermazione secondo cui sarebbe stato vittima di una persecuzione.
«Questa elezione è stata come una Tac fatta al popolo americano. E, per quanto possa essere difficile ammetterlo, per quanto sia dura doverlo dire, questa Tac ha rivelato la spaventosa affinità, quantomeno parziale, del popolo americano con un uomo la cui immoralità è senza confini», ha detto Peter H. Wehner, ex consigliere strategico del presidente George W. Bush e oppositore dichiarato di Trump. «Donald Trump non è più un’aberrazione, ma è la norma».
Il fatto che Trump sia stato in grado di riprendersi, negli ultimi quattro anni, da così tante sconfitte giudiziarie e politiche, ognuna delle quali sarebbe stata sufficiente a far naufragare la carriera di qualsiasi altro politico, testimonia la sua notevole capacità di recupero e la sua temerarietà. Trump non si è mai arreso e, almeno per ora, non ha perso.
Ciò che è successo è dovuto almeno in parte anche ai fallimenti del presidente Joe Biden e di Harris, che ne è stata la vicepresidente. La vittoria di Trump è stata anche un giudizio negativo su un’Amministrazione che, se ha approvato ampi programmi di assistenza contro la pandemia, ha aumentato la spesa sociale e ha promosso la lotta al cambiamento climatico, è stata però penalizzata da un’inflazione alle stelle e dall’immigrazione clandestina, due questioni che sono state riportate sotto controllo, l’una e l’altra, troppo tardi.
Inoltre, Biden e Harris, benché avessero promesso di farlo, non sono riusciti a ricomporre le divisioni che si erano create durante il primo mandato di Trump, anche se va detto che forse non sarebbe stato proprio possibile sanarle. In ogni caso, Biden e Harris non sono riusciti a capire come incanalare quella rabbia che alimenta il movimento che sostiene Trump né di rispondere alle battaglie culturali che esso ingaggia.
Una volta ricevuto il testimone da Biden, Harris ha inizialmente posto l’accento sul fatto che la sua missione per il futuro fosse positiva e piena di gioia. Questo sforzo galvanizzava i democratici entusiasti che già la sostenevano, ma non era sufficiente a conquistare gli elettori meno fidelizzati.
A quel punto, Harris è tornata all’approccio di Biden, mettendo in guardia gli elettori sul fatto che Trump costituisse un pericolo e dicendo che la sua elezione avrebbe potuto essere il primo passo verso il fascismo. Ma non è bastato neanche questo.
«Le persone che hanno contribuito alla loro elezione volevano che Biden e Harris unissero il Paese, ma loro non sono riusciti a farlo», ha affermato l’ex deputato Carlos Curbelo, che è un repubblicano della Florida ostile a Trump. «Il loro fallimento ha portato a un’ulteriore delusione nei confronti della politica del nostro Paese e ha rinvigorito la base elettorale di Trump, consentendo a quest’ultimo un’altra vittoria di misura dopo i tre insuccessi consecutivi subiti in occasione di altrettante elezioni di respiro nazionale».
Harris nei giorni conclusivi della sua campagna elettorale ha invocato l’unità, ma il suo messaggio di armonia – «Questa è una cosa che ci riguarda tutti» – non è riuscito a prevalere sul messaggio belligerante – «Fight!, Fight!, Fight!» – di Trump. E in un Paese che rimane spaccato in due le elezioni hanno ulteriormente rafforzato la polarizzazione: ci troviamo in un’epoca tribale, in un momento da “noi contro loro” nel quale le due parti sono così lontane l’una dall’altra da non riuscire neanche a comprendersi reciprocamente.
La resurrezione politica di Trump ha anche evidenziato un aspetto spesso sottovalutato dell’esperimento democratico americano, che ha 248 anni.
Pur con tutta la loro devozione al costituzionalismo, gli Stati Uniti hanno già vissuto dei momenti in cui l’opinione pubblica ha avuto voglia di un uomo forte e ha manifestato il suo desiderio di conferire a questa figura un’autorità fuori dal comune. Questo è perlopiù avvenuto in tempo di guerra o quando la nazione si è trovata in pericolo – ma va detto che Trump considera l’attuale lotta per la guida dell’America proprio come una specie di guerra.
«Durante tutta la campagna elettorale, Trump ha cercato di condizionare gli americani affinché vedessero la democrazia americana come un esperimento fallito», ha detto la storica Ruth Ben-Ghiat, autrice di “Strongmen: Mussolini to the present”. Elogiando dittatori come il presidente russo Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping, Trump «ha utilizzato la sua campagna elettorale per preparare gli americani all’autocrazia», ha spiegato BenGhiat, che ha sottolineato come egli abbia adottato un linguaggio tratto dal lessico nazista e sovietico quando ha bollato gli oppositori come «parassiti» e «nemici interni», quando ha accusato gli immigrati di «avvelenare il sangue del nostro Paese» e quando ha suggerito che avrebbe potuto usare l’esercito per rastrellare gli oppositori. «Una vittoria di Trump significherebbe che hanno trionfato questa visione dell’America e il ricorso alla violenza come mezzo per risolvere i problemi politici», aveva detto Ben-Ghiat prima delle elezioni.
Ma altri sono invece meno propensi a ipotizzare che Trump possa dare davvero seguito alle sue minacce più stravaganti. Marc Short – che è stato chief of staff dell’ex vicepresidente Mike Pence e potrebbe quindi avere dei motivi di preoccupazione se si considera la rabbia che Trump nutre sia verso di lui sia nei confronti del suo ex capo – ha detto di non aver paura che possa esserci un’ondata di ritorsioni.
«Io non credo a tutto questo», ha detto. «Penso che in tutto questo ci sia anche molta teatralità e che non ci saranno delle vere azioni punitive».
Ma Short prevede comunque altri quattro anni di caos e incertezza. «Penso che ci sarà molta instabilità – sul piano personale ma anche con notevoli effetti boomerang sulla politica», ha detto. «Non c’entreranno tanto Biden e Harris: si tratterà, più che altro, di boomerang scagliati dallo stesso Trump. Vedremo come un giorno sosterrà una posizione e il giorno dopo ne sosterrà un’altra».
L’ultima vittoria di Trump corrobora anche la tesi secondo cui gli Stati Uniti non sono pronti per una donna nello Studio Ovale. Trump, un adultero dichiarato che si è sposato tre volte ed è stato accusato di condotta sessuale inappropriata da più di venti donne, ha sconfitto per la seconda volta una donna con più esperienza di lui nell’amministrazione pubblica. Sia Hillary Clinton sia Kamala Harris avevano dei difetti, così come hanno dei difetti tutti i candidati maschi, ma tra le persone di sinistra, nel giorno successivo allo scrutinio, era palpabile la sensazione di déjà vu.
Trump ha condotto una campagna elettorale esplicitamente rivolta agli uomini, ospitando Hulk Hogan che si è strappato la maglietta alla Convention nazionale repubblicana, facendo discorsi da macho nel suo comizio conclusivo al Madison Square Garden e simulando addirittura un atto sessuale con un microfono negli ultimi giorni della corsa alla presidenza. A urne aperte, il consigliere di Trump Stephen Miller ha postato un messaggio sui social media che diceva: «Se conoscete degli uomini che non hanno votato, portateli alle urne».
Le prime rilevazioni hanno indicato come tra gli elettori di Harris fossero prevalenti le donne e tra gli elettori di Trump lo fossero invece gli uomini. Tuttavia, anche se in molti Stati sono stati approvati i referendum sul diritto all’aborto, questo tema, in occasione delle prime elezioni presidenziali dopo il rovesciamento della sentenza Roe v. Wade, non ha influenzato il voto delle donne nella misura che i Democratici si aspettavano e i Repubblicani temevano.
In un certo senso, la vittoria di Trump chiude il cerchio che si era aperto il 6 gennaio 2021, quando una folla di suoi sostenitori aveva dato l’assalto al Campidoglio. Di quella scorreria, che aveva l’obiettivo di fermare la ratifica della vittoria di Biden nelle elezioni del novembre del 2020, sarà ora data una nuova interpretazione: non sarà più considerato un attacco mortifero alla democrazia (che avrebbe dovuto screditare Trump) ma un atto patriottico che potrà quindi meritare quelle concessioni della grazia che Trump aveva promesso di elargire qualora fosse stato rieletto presidente.
«Per molti versi, questo è l’ultimo capitolo del dramma del 6 gennaio», ha detto Naftali. «Molti repubblicani pensavano di essere riusciti a quadrare il cerchio, e cioè di essersi liberati di Trump senza far arrabbiare la loro base. Ma non è stato così. E ora Trump è tornato. Una volta che sarà riuscito a vincere la sua scommessa tornando al potere, il verdetto finale del 6 gennaio sarà che nell’America moderna si può imbrogliare e il sistema non è abbastanza forte per reagire».
La lotta che ora si prospetta è quella che Trump dice di voler intraprendere contro un sistema che ritiene corrotto. Se darà seguito alle promesse fatte in campagna elettorale, cercherà di aumentare i poteri del presidente, di mettere alle strette lo “Stato profondo” e di dare la caccia agli avversari politici “traditori” presenti in entrambi i partiti e nei media.
Questa volta Trump avrà la legittimazione e l’esperienza che non aveva otto anni fa. Rispetto al suo primo mandato, ha imparato non tanto come si fa politica, quanto come si manovrano le leve del potere. Questa volta avrà più libertà, potrà contare su una serie di consiglieri più allineati e forse su entrambe le camere del Congresso, oltre che su un partito che, diversamente da otto anni fa, ora risponde solo a lui.
L’era Trump, a quanto pare, non è stata una parentesi di quattro anni. Supponendo che riesca a portare a termine il suo nuovo mandato, si prospetta ora un’era di dodici anni che lo pone al centro della scena politica tanto quanto lo furono Franklin D. Roosevelt o Ronald Reagan.
È l’America di Trump, in definitiva.
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Peter Baker è il chief White House correspondent del New York Times e partecipa regolarmente al programma Washington Week with The Atlantic in onda sulla PBS. L’ultimo dei suoi libri, scritto insieme con sua moglie Susan Glasser, è “The Divider: Trump in the White House, 2017-2021” (Knopf Doubleday Publishing Group, 2022).