Il Grande MeccanoContrordine, Franceschini smonta l’alleanza strategica

Al di là del merito, colpisce la disinvoltura con cui da decenni gli stessi dirigenti passano da una linea a quella diametralmente opposta, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

Unsplash

Da antico sostenitore del ritorno al proporzionale, e prima ancora al principio di realtà, dovrei forse gioire per la svolta proposta da Dario Franceschini nella sua intervista di oggi a Repubblica, in cui invita i partiti di opposizione ad andare alle elezioni «ognuno per conto suo, valorizzando le proprie proposte e l’aspetto proporzionale della legge elettorale», perché in fondo «è sufficiente stringere un accordo sul terzo dei seggi che si assegnano con i collegi uninominali per battere i candidati della destra».

Da critico irriducibile del «campo largo» o «alleanza strategica» (come la chiamava Franceschini) con il Movimento 5 stelle, e di tutto lo straziante e inconcludente processo unitario in cui i dirigenti del Pd si sono impantanati sin dai tempi di Nicola Zingaretti, probabilmente dovrei essere il primo a esultare per queste parole. «Serve realismo», dice ora il più convinto sostenitore di tutti i segretari, gli indirizzi e gli schemi di alleanze precedenti (nonché, ovviamente, grande elettore di Elly Schlein). «I partiti che formano la possibile alternativa alla destra sono diversi e lo resteranno.

È inutile fingere che si possa fare un’operazione come fu quella dell’Ulivo. L’Ulivo non tornerà, da quella fusione è già nato il Pd». Dopodiché, non è nemmeno chiarissimo cosa resterà, in questo schema, dello stesso Partito democratico, considerata anche l’esortazione di Franceschini, buon ultimo, a fondare un partito di centro «che parli di più ai moderati», allo scopo di «allargare l’offerta elettorale».

A parte questa singolare e perlopiù sfortunata abitudine di promuovere i partiti altrui, vizio antico dei dirigenti del Pd che è in realtà l’altra faccia della loro ossessione per il bipolarismo e il maggioritario, condivido ogni parola dell’analisi franceschiniana, ma non riesco ugualmente a entusiasmarmi.

Al di là del merito di questa ennesima svolta, quello che mi colpisce di più è la disinvoltura con cui da trent’anni le stesse quindici o venti persone si rimettono ogni giorno a montare e smontare partiti e coalizioni, alleanze strategiche e fronti popolari: questo grande meccano cui è stata ridotta la politica. O forse dovrei dire piuttosto questo infinito gioco dell’oca.

E il fatto che il Pd (o almeno una sua parte, ma una sua parte influente) torni adesso alla casella che personalmente preferisco mi sembra comunque meno significativo del fatto che i suoi dirigenti abbiano già ricominciato ad aprire il tabellone e tirare i dadi.

L’incipit è sempre lo stesso: «Dobbiamo evitare di commettere gli errori già fatti in passato». E cioè, in questo caso: «Passare i prossimi tre anni ad avvitarci in discussioni: primarie sì o primarie no, Renzi sì e Conte no, o viceversa, tavoli di programma, discussioni sul nome». Parole che m’immagino pronunciate con il tono con cui in Animal House dicevano all’amico cui avevano appena sfasciato la macchina: «Suvvia, vuoi passare il resto della vita a piangere sui tuoi errori? Hai fatto uno sbaglio, ti sei fidato di noi».

X