Questa volta, dopo tanti annunci e altrettante smentite, l’accordo sul cessate il fuoco a Gaza è stato raggiunto. Alla giornalista che gli domandava se il merito sarebbe stato riconosciuto a lui o a Donald Trump, ieri, al termine della sua conferenza stampa, Joe Biden ha risposto con un sarcastico: «È uno scherzo?».
Trattandosi del piano elaborato da Biden e che da mesi Biden tentava di imporre, senza riuscirci soprattutto per le resistenze di Benjamin Netanyahu, potrà apparire magari un’ingiustizia, ma non è uno scherzo. E il motivo per cui Netanyahu ha accettato ieri quello che fino a un minuto prima aveva ripetutamente assicurato che non avrebbe accettato mai – lasciare Hamas al suo posto, tanto per cominciare – dipende, almeno in parte, proprio da Trump.
Come ha scritto Amos Harel su Haaretz, infatti, la svolta è arrivata nell’incontro del primo ministro israeliano con Steven Witkoff, un miliardario amico del presidente eletto, nonché suo prossimo inviato speciale in Medio Oriente. «L’inviato ha spiegato al padrone di casa in termini inequivocabili che Trump si aspettava che accettasse un accordo», motivo per cui «cose che Netanyahu aveva definito questioni di vita o di morte sono improvvisamente svanite». Harel lo definisce «effetto Trump».
Partendo dalla ricostruzione di Haaretz e interrogandosi sulla natura di questo «effetto», Bret Stephens, sul New York Times, parla di «un paradosso diplomatico sottovalutato: in gran parte grazie a Trump, un accordo invocato dalla sinistra israeliana e disprezzato dalla destra sta per entrare in vigore.
Un anno di lavoro diplomatico dell’amministrazione Biden sta per dare frutti grazie alla sua nemesi politica». Secondo Stephens il prezzo pagato da Israele sarà comunque alto, specialmente se abbandonerà la striscia di terra che collega Gaza all’Egitto, permettendo così ad Hamas non solo di restare al comando, ma anche di riarmarsi e forse persino di organizzare un nuovo 7 ottobre. E tuttavia riconosce che oggi, dopo i colpi ricevuti dal cosiddetto Asse della Resistenza anche e soprattutto in conseguenza del massacro di un anno fa, la posizione strategica di Israele è incomparabilmente più forte.
Personalmente, aggiungerei che nel frattempo si è fatta assai più forte anche la posizione politica di Netanyahu, sebbene non la sua posizione giudiziaria. Ma chissà che anche da questo punto di vista l’effetto Trump non possa suggerirgli qualche innovazione, lungo una strada su cui del resto Netanyahu si è incamminato già da tempo.