«Anì maamìn»I figli della Shoah e le pietre d’inciampo della storia

In “La notte dei ricordi” (Castelvecchi), attraverso letture e testimonianze delle famiglie Spizzichino e Aboaf, Annalisa Comes e Hora Aboav raccontano i dolori passati e le speranze odierne del popolo ebraico

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La parola Shoah vuol dire ‘catastrofe’, ‘rovina’. Parola biblica che appare nella Toràh e acquista diverse denominazioni nell’ambito della ‘desolazione’ e ‘distruzione’, nonché ‘disgrazia’.
Il famoso versetto 11 del capitolo 47 di Isaia risuona chiaro: E ti ha colto il malanno senza che tu te ne accorgessi, ti è sopraggiunta un’irreparabile sciagura, ti ha colpito una Shoàh-catastrofe
inavvertita, improvvisa”. Shoah è una parola ben diversa da Olocausto. ’olàh, infatti, ricorda il sacrificio levitico che andava completamente bruciato sull’altare e che poteva essere offerto anche in gruppo o individualmente.

Una miniserie televisiva americana del 1978 raccontò la Shoah con il titolo Holocaust che è la sua traduzione inglese. Da allora è rimasto incollato questo nome che spesso è usato nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio, anche da persone colte che ricoprono un incarico pubblico.

In molte commemorazioni di questo giorno viene cantato il dodicesimo articolo di fede di Maimonide «Anì maamìn»: Io credo con fede completa nella venuta del Mashìach e anche se tarderà
a venire, con tutto ciò, io Lo aspetterò ogni giorno che verrà. Saper sperare dopo Auschwitz. Oggi mi riconosco figlia della Shoah e mi giunge chiaro il suono del canto di Primo Levi. Oggi non mi arrendo facilmente e so accogliere tra le mie braccia quella diciannovenne sperduta che desiderava solo scomparire. Alzo gli occhi e si apre pigra una verde visione montana. Davanti a me solo il vuoto e l’aria pulita. «Hinnèni!», «eccomi!». Con Etty Hillesum dico ad alta voce: «Hai altri progetti per me, mio Dio? Riusciro ad accettarli? Io rimango comunque pronta».

Pietra d’inciampo
Una sottile lastra dorata su cui è scritto:
QUI ABITAVA…
Data di nascita…
ARRESTATA…
DEPORTATA A…
MORTA/ASSASSINATA… A
DATA…

La memoria sopravvive alle generazioni e diventa nutrimento. “Pietra d’inciampo” si dice in ebraico èven nèghef; ‘pietra’, èven. La mistica è solita interpretarla come l’unione del legame senza tempo, del continuo gioco generazionale padre-figlio (av-ben). Meachèd ‘unisce’ ha il suo stesso valore numerico (gematria) 53. Questa forma verbale deriva dalla radice Àlef-Chet-Dàlet, la stessa di ‘uno’ (Echàd).

‘Pietre’, avanìm. Una pietra viene deposta sulle tombe dei defunti come segno di vera espressione di rispetto e di sentimento per l’eternità. ‘Figlio’, ben, e la porta di Bet-Nun-He’ che introduce il tema del costruire. ‘Inciampo’ è nèghef. Il suo sinonimo più usato e michshòl. È in campo un ostacolo, un impedimento ma è anche ‘calamità’ ed ‘epidemia’. Nun-Ghìmel-Pe’ esprime questi temi ma anche ‘colpire’ e ‘urtare’.

Non so se la pietra d’inciampo (in tedesco stolpersteine), opera di Gunther Demnig, nasca semplicemente con quest’ultimo significato che ci porta all’inciampo, ma come leggiamo in ebraico è molto di più e accentua la sofferenza della persona amata che è uscita da quel portone, shà’ar, dove la pietra è stata deposta.

Qui abitava Graziella Spizzichino
Nata 1914
Arrestata 8.5.44
Deportata Auschwitz A8494
Morta 15.4.45 Bergen-Belsen

Qui abitava Letizia Spizzichino
Nata 1916
Arrestata 8.5.1944
Deportata Auschwitz A8495
Morta 13.4.45 Bergen-Belsen

Qui abitava Elvira Spizzichino
Nata 1918
Arrestata 8.5.44
Deportata Auschwitz
Assassinata 30.06.1944

Di fronte a me le tre targhe commemorative in una scatola lucida blu hanno perso il colore lucente dorato dell’ottone elaborato dall’artista Gunther Demnig. Le prime pietre d’inciampo su 33.000 installate in Europa, sono divelte, violate, trafugate e gettate nella discarica. Appaiono accartocciate, tagliuzzate in alcune parti, sporche. La “L” di Letizia non c’è più. Quella di Elvira mantiene ancora il fianco sinistro quasi per tutta la lunghezza ma tagliuzzato.

I ragazzi del Liceo Classico “Marco Terenzio Varrone” di Rieti hanno sfilato in silenzio davanti a esse alla fine dell’esperienza di testimonianza nel Giorno della Memoria. Un’aula di palestra piena aveva ascoltato in silenzio e aveva adottato quelle tre ragazze – le mie tre zie, sorelle di mia madre, Graziella, Letizia ed Elvira – uscite da quel portone di via Santa Maria in Monticelli 67 a Roma il 9 maggio del 1944 e mai più ritornate. Non so perché non me ne sia accorta prima. A volte si è presi più dal generale che dai particolari.

La mattina dell’installazione sono rimasta vicina a mio zio Berto (Umberto Aboaf) quasi novantenne, fratello di mio padre e fidanzato di Letizia. Non l’ha mai dimenticata: «Finalmente posso venire a trovarla tutte le mattine!» aveva sussurrato sfiorando con le dita il suo nome. Poi avvicinandosi aveva esclamato: «Ma è a terra! Io mi aspettavo una targa sul muro, come si usa fare con il marmo! Ci cammineranno sopra!».

Quelle parole hanno risuonato in me per tutto il giorno, e mi sono sentita responsabile di non so cosa, avrei preferito non averle udite. Pover’uomo. La sua vita è stata spezzata a Buchenwald nel chiarore della giovinezza. Aveva ventitré anni ed era ritornato a casa col misero peso di trentanove chili e una canzone in gola che non ha mai smesso di cantare: «Ricordo tutte le parole, non le dimentico!» affermava.

Tratto da “La notte dei ricordi”, di Annalisa Comes e Hora Aboav, Castelvecchi, 144 pagine, 19,00 euro

 

 

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