AntropoceneLa trasformazione delle terre di confine, da paludi a metropoli

Ben Wilson, in “Giungla urbana” (Il Saggiatore), esplora il rapporto tra uomo e natura nelle città moderne, raccontando come le due realtà possano coesistere e arricchirsi a vicenda, creando degli ecosistemi nuovi e più ricchi

Unsplash

Il margine. L’orlo. L’interfaccia tra centro urbano e natura selvaggia. Desakota. Zona grigia. Interzona. Area rurbana. Zona periurbana. Sobborgo. Periferia. Terrain vague. Hinterland. Esistono molti termini per definire le misteriose terre di confine delle metropoli, il luogo in cui la città sprofonda nella natura. Victor Hugo la chiamava «campagna un po’ bastarda»: «Osservare il suburbio significa osservare l’anfibio. Fine degli alberi, principio dei tetti, fine dell’erba, principio del selciato, fine dei campi, principio delle botteghe».

Se solo la linea di demarcazione fosse così netta. Spesso il confine urbano è una zona di transizione. Il termine desakota è composto dalle parole indonesiane desa (villaggio) e kota (città): descrive una zona liminare, dove l’agricoltura intensiva e la vita rurale si intersecano con le aree industriali, i sobborghi residenziali, i villaggi abusivi e i grovigli di strade. Applicato alla sconfinata espansione delle metropoli nelle regioni rurali‑urbane dei paesi in via di sviluppo nel Sudest asiatico, nel subcontinente indiano e in Africa, desakota esprime lo strano e confuso ibridismo delle moderne terre di confine urbane presenti in tutto il mondo, con la loro precaria commistione di destinazioni d’uso: campi agricoli e centri commerciali, complessi di uffici e chiazze di antichi boschi, campi da golf e aree di sosta per roulotte, laghi artificiali e discariche di rifiuti, centri dirigenziali e distese desolate. Conosciamo tutti queste terre di confine. 

Questi spettrali non-luoghi sono stati la fonte di ispirazione di Ernest Lawson a New York, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Nei suoi dipinti dedicati ai margini della metropoli, possiamo osservare il triste stato della campagna di Manhattan a mano a mano che i condomini la invadono come un esercito assediante. Una volta che la roccia sarà stata frantumata con la dinamite, il terreno spianato e gli alberi abbattuti, tutto ciò che è rurale e selvaggio si trasformerà in un reticolo uniforme di strade.

Intanto è un posto fatto di campi abbandonati e colonizzati dalle erbacce. «Chi, se non Lawson, può far emergere la bellezza da una regione infestata di squallidi capanni, alberi desolati, immondezzai e tutte le altre sgradevolezze tipiche di qualsiasi area suburbana incolta?», chiedeva uno dei suoi mecenati.

Lawson catturò sulla tela il momento appena precedente il tramutarsi della natura in cemento. La linea del fronte non resta mai immobile a lungo. Scrivendo più o meno nello stesso periodo, il naturalista James Reuel Smith osservava che negli anni Ottanta del diciannovesimo secolo il terreno al di là della Settantaduesima strada di New York era «una foresta in uno stato primordiale». Nell’arco di due decenni, era già tutto scomparso, sostituito da «viali asfaltati e prati curati». 

All’inizio del Novecento bisognava ormai avventurarsi fino a Washington Heights, vicino a quella che sarebbe diventata la Centosettantunesima strada, per vedere i «boschi quasi inviolati estendersi per monti e per valli, inframmezzati da profondi burroni, con una moltitudine di ruscelli gorgoglianti, massi, un albero caduto ogni tanto e tutta la rusticità di un luogo sperduto in aperta campagna». Ma non durò a lungo: giorno dopo giorno tutto questo andava «scomparendo alla vista con una celerità tale che nel giro di mesi nessuna di queste cose sarà più visibile sull’isola di Manhattan».

La radicale riorganizzazione del paesaggio era iniziata con l’insediamento degli europei e aveva subìto un’accelerazione nel diciannovesimo secolo, con la crescita della popolazione di New York da trentatremila abitanti nel 1790 a cinquecentoquindicimila nel 1850 e 3,48 milioni nel 1900. A mano a mano che la popolazione cresceva, la città si espandeva verso le zone paludose e i terreni erbosi che rendevano l’ampio estuario dell’Hudson una delle aree più ricche di biodiversità del pianeta. Come racconta Ted Steinberg nel suo magnifico e agghiacciante Gotham Unbound: the ecological history of Greater New York, le colline vennero spianate e gli acquitrini colmati con i detriti mescolati a cumuli di immondizia. 

Il prosciugamento, il rinterro e l’urbanizzazione dei terreni paludosi «inutili» e «insopportabili alla vista» furono salutati dalla stampa e da politici, urbanisti e immobiliaristi come un’opera di «risanamento pubblico» che avrebbe permesso di convertire in dollari la vacuità improduttiva. Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento la frenesia dello sviluppo decretò la scomparsa di un’estensione di zone umide complessivamente pari alla superficie di Manhattan. E quello fu solo il preludio di un assalto ancora più furibondo nei decenni che seguirono.

Gli aeroporti internazionali LaGuardia, Jfk e Newark furono costruiti su aree paludose bonificate, così come alcune importanti stazioni marittime. I centotrenta chilometri quadrati di foresta palustre di tuie occidentali negli Hackensack Meadows, in New Jersey (un’area selvaggia a soli otto chilometri di distanza dall’Empire State Building), erano adocchiati con avidità come «l’area non edificata potenzialmente più preziosa nel suo genere in tutto il mondo». 

Le macerie prodotte dal Blitz di Londra, trasportate come zavorra sulle navi che tornavano in patria, vennero scaricate negli acquitrini, assieme a spazzatura e rifiuti chimici. Nel 1976 l’area si era ristretta a ventisette chilometri quadrati. Negli anni Quaranta del Novecento, l’urbanista Robert Moses, artefice della ristrutturazione di New York, visitò una delle ultime importanti zone umide della metropoli ancora integre (Fresh Kills, a Staten Island, poco più di mille ettari di terreno paludoso) e si leccò i baffi davanti a un’«immensa distesa di prati incolti […] che al momento è priva di valore».

La prima mossa nel processo destinato a convertirla da scrigno ecologico a proprietà immobiliare di pregio fu (come sempre) riempirla di immondizia. Nel 1955 Fresh Kills era ormai diventata la più grande discarica di rifiuti del mondo. Per anni e anni accolse ogni giorno ventinovemila tonnellate di rifiuti solidi generati dalla città. Le paludi salmastre pianeggianti si erano trasformate, nell’arco di pochi anni, in una catena montuosa di scarti degli esseri umani, le cui sommità sfioravano i settanta metri.

Visibile dai grattacieli di Manhattan, Fresh Kills divenne un monumento spaventoso in memoria dei danni che le città arrecano all’ecosistema. Le metropoli consumano il mondo naturale con feroce appetito e producono inquinamento e rifiuti, avvelenando i fiumi e le zone umide e trasformando gli habitat naturali in discariche tossiche.

Nel 1970, nel pieno di questa orgia di distruzione a Fresh Kills, Samuel J. Kearing, ex commissario per l’igiene pubblica di New York, osservò la galoppante devastazione dell’ambiente palustre selvaggio e domandò che cosa fosse più importante: lo sviluppo urbano dissennato «o la conservazione degli uccelli selvatici e della comunità biologica di cui essi, e noi, facciamo parte»? «Io voterei a favore degli uccelli» dichiarò. «Penso che lo farebbero anche molte altre persone, se fossero state con me durante la mia prima ispezione alla discarica del Dipartimento per l’igiene pubblica di Fresh Kills. Era una scena da incubo. Ricordo ancora molto bene di aver osservato le operazioni da una torre di controllo pensando che per migliaia di anni Fresh Kills […] era stata una magnifica e feconda maremma, che migliorava letteralmente la vita. E in soli venticinque anni era scomparsa, sepolta sotto milioni di tonnellate di rifiuti di New York». Quella di Kearing era una voce isolata. 

«Abbiamo respinto il mare e bonificato la palude per costruire parchi e aeroporti» annunciava entusiasta il New York Times nel 1946, celebrando la vittoria della metropoli sui vincoli imposti dalla natura. La «via del progresso» diceva, era il risultato dell’«uso sapiente dell’ammasso di immondizia e di altri rifiuti» per trasformare gli acquitrini in terreni asciutti. I limiti naturali alla crescita erano stati eliminati. Il sistema ecologico e il paesaggio delle terre di confine erano risorse da consumare, trasformare e interamente ricreare, non c’era spazio per i compromessi; alla fine del ventesimo secolo, il novanta per cento delle maremme e delle paludi di acqua dolce era definitivamente scomparso.

La conversione della natura in centro urbano, la bonifica delle terre apparentemente inutili per ricavarne terreni redditizi e la trasformazione pressoché totale del paesaggio nella regione metropolitana di New York anticiparono gli sviluppi che si sarebbero verificati in tutto il mondo nella seconda metà del ventesimo secolo. 

Prendiamo per esempio Singapore, un luogo poco promettente che, come New York, fu riprogettato per poterne sfruttare la vantaggiosa posizione geografica come snodo commerciale. Durante il periodo coloniale, Singapore ampliò le sue terre emerse di tre chilometri quadrati bonificando le foreste di mangrovie, prosciugando gli acquitrini e ampliando il litorale. Nei tre decenni successivi alla piena indipendenza, ottenuta nel 1965, la città-stato sottrasse al mare altri centotrentotto chilometri quadrati, espandendo enormemente le sue dimensioni e creando (letteralmente) le condizioni per la sua ascesa economica.

Il risultato è che più o meno tutta la linea costiera di Singapore è artificiale, con conseguenze devastanti per l’esuberante biodiversità della zona. Oggi sopravvive soltanto il cinque per cento dei settantacinque chilometri quadrati di mangrovie che esistevano nel 1819. Le spiagge di sabbia sono in gran parte scomparse e il sessanta per cento degli oltre cento chilometri quadrati di barriera corallina è andato perduto.

Lo stesso accade nel resto del mondo, una città dopo l’altra: interi ecosistemi vengono ricostruiti per spianare la strada al decollo economico. La distruzione delle terre di confine acquatiche – gli sgradevoli acquitrini, le fitte foreste di mangrovie e le invisibili barriere coralline – rappresenta lo scontro tra la città e la natura e, soprattutto, l’Antropocene.

Tratto da “Giungla urbana” (Il Saggiatore) di Ben Wilson, pp. 400, 30,00€

X