Quesiti linguisticiIl «vintage» spiegato dall’Accademia della Crusca

Il termine deriva dal francese antico vendenge, «vendemmia», usato dalla metà del Quattrocento per indicare un vino, in particolare un Porto o uno Champagne, di altissimo pregio, d’annata o millesimato

(Unsplash)

Tratto dall’Accademia della Crusca

La parola vintage è di introduzione piuttosto recente in italiano, dove, a giudicare dalla documentazione lessicografica disponibile, si trova attestata solo a partire dal 1992; una ricerca su Google libri permetterebbe tuttavia di arretrare almeno di una dozzina d’anni questa prima apparizione, rintracciandosi la parola nel volume di argomento economico Domanda di lavoro e produttività nell’industria italiana di Paolo Palazzi e Paolo Piacentini (Bologna, Il Mulino, 1980). Poiché si tratta di un prestito dall’inglese – che a sua volta, come vedremo, lo prese dal francese –, la pronuncia più corretta riproduce il modello britannico e dunque /ˈvɪntɪdʒ/ (l’inglese americano tende invece al dileguo del suono t, pronunciando /ˈvɪn(t)ɪdʒ/).

Tale modello è suggerito dai maggiori vocabolari italiani, che ne riconoscono l’origine prossima dall’inglese: Zingarelli 2025 indica la pronuncia /ˈvintedʒ/, con l’accento sulla i, con e chiusa e con il suono finale /dʒ/ che corrisponde alla g di giorno, presentando in seconda battuta la pronuncia inglese /ˈvɪntɪdʒ/, con una particolare forma di i per entrambi i suoni vocalici. La pronuncia /ˈvɪntɪdʒ/ è indicata anche dal Devoto-Oli 2024, dove pure si trova specificato che la pronuncia italiana è /ˈvintedʒ/, dal Vocabolario Treccani online e dal Sabatini-Coletti. Lo stesso suono finale (cioè la succitata g di giorno, tecnicamente detta affricata postalveolare sonora) è prospettato da GRADIT e dal Supplemento 2004 del GDLI, con la differenza che per il secondo suono vocalico indicano la a, suggerendo dunque di pronunciare /ˈvintadʒ/.

Tirando le somme di queste varie indicazioni, risulta che i vocabolari italiani concordano sulla pronuncia all’inglese, con accento sulla prima sillaba e con g “dolce” finale, mentre per il secondo suono vocalico oscillano fra l’indicare /ˈvintedʒ/ (preferibile), /ˈvɪntɪdʒ/ e /ˈvintadʒ/. Una conferma in questo senso proviene da alcuni software che consentono la riproduzione sonora delle parole (per esempio DeeplTranslate, che presenta /ˈvintedʒ/) e dall’unico prontuario di pronuncia che contempla la voce, il DIPI – Dizionario di pronuncia italiana online, che, oltre a raccomandare la pronuncia /ˈvintedʒ/, sconsiglia quella alla francese (/venˈtaʒ/), con accento sulla seconda sillaba e con il suono finale /ʒ/ (fricativa postalveolare sonora). Il suono /ʒ/ è sconosciuto al sistema fonetico dell’italiano, ma si ritrova nella pronuncia dell’ultima sillaba di francesismi, pure molto diffusi nella nostra lingua, come garage o maquillage.

L’oscillazione fra la pronuncia all’inglese e quella alla francese si ritrova nell’uso, come emerge da una piccola rassegna sui video pubblicati all’interno di account Instagram italiani che trattano di vintage, nei quali la pronuncia alla francese trova una certa accoglienza da parte degli addetti ai lavori: curatori di immagine, stilisti, gestori di negozi di abbigliamento o di oggetti vintage ecc. Per spiegare le ragioni di questa alternanza si possono seguire due binari: quello dell’etimologia e dell’evoluzione della parola e quello, intrecciato a ragioni di prestigio sociolinguistico, dell’analogia.

Partendo da quest’ultimo binario, non è da escludersi che la pronuncia francesizzante di vintage sia stata conguagliata a quella di altri prestiti dal francese terminanti in -age e attestati in italiano da più antica data, come bricolage (in italiano dal 1953), camouflage (dal 1917), i succitati garage (dal 1905) e maquillage (dal 1918) o come i più recenti decoupage (dal 1961) e brocantage (dal 1986), per i quali non vi sono dubbi sulla pronuncia francesizzante, o come triage, molto usata all’epoca della pandemia (per cui si veda la risposta di Miriam Di Carlo). La parola brocantage, apparsa in italiano poco prima di vintage e indicante l’‘attività di chi raccoglie e commercializza mobili e oggetti vecchi, usati, d’occasione’ (Zingarelli 2025), si imparenta a vintage anche dal punto di vista semantico, per cui le due voci potrebbero essersi approssimate anche nella pronuncia (si pensi alle vendite all’asta o alle fiere “del brocantage e del vintage”, spesso affiliati). Tra i francesismi terminanti in -age, rappresenta invece un caso a parte stage ‘tirocinio’ (in italiano dal 1865; cfr. la risposta di Simona Cresti), che andrebbe più correttamente pronunciato / staʒ /, alla francese, e non / steidʒ /, all’inglese, assecondando un orientamento anglicizzante che dagli ambienti lavorativi e aziendali si è diffuso nella lingua comune. Restando nell’ambito dell’analogia, all’affermazione della pronuncia all’inglese potrebbe aver concorso il successo internazionale, e dunque anche italiano, di Vinted, sito di compravendita di oggetti usati, soprattutto abiti e accessori, pronunciato senza scampo /ˈvinted/.

La pronuncia alla francese si alterna e spesso sopravanza quella all’inglese, in particolare, nell’ambito dell’enologia, dove vintage indica un vino d’annata o millesimato, e in quello della moda. In entrambi i casi tale pronuncia sembra un portato della riconosciuta supremazia francese nei rispettivi campi, ma mentre nel caso dell’enologia risponde a una necessità denominativa, in quello della moda appare dettata da ragioni legate alla storia della moda e dallo snobismo di coloro che la frequentano, per i quali il francese è sinonimo di eleganza, ricercatezza, distinzione. Peraltro, a eccezione del Sabatini-Coletti, tutti i vocabolari italiani che riportano la voce presentano come primo significato quello di ‘vino d’annata’ o ‘millesimato’, significato vitale e ben attestato soprattutto in contesti specialistici, ma non solo, come dimostra una semplice ricerca sui siti internet che si occupano della vendita del vino. I vocabolari riportano solo in seconda battuta il significato esteso riferito alla moda, al design e in generale a oggetti e tendenze, ritenute ancora pregevoli, risalenti a epoche passate o rispondenti al relativo gusto.

Dicevamo che l’intreccio fra le pronunce all’inglese e alla francese si spiega anche in base a ragioni storico-etimologiche. La storia del termine affonda infatti nel francese antico vendenge ‘vendemmia’ (a sua volta dal latino vindemia), attestato in questa lingua dalla metà del Quattrocento per indicare un vino, in particolare un Porto o uno Champagne, di altissimo pregio, d’annata o millesimato (TLFi). Nello stesso secolo e in questo significato, il termine oltrepassa la Manica e nell’inglese, dove inizialmente si trova nella forma vyntage, conosce un’evoluzione semantica che nel corso del tempo lo porta a designare la vendemmia, le cose buone di una volta, la data in cui una persona è nata o quella in cui un oggetto viene prodotto ecc., estendendosi a indicare qualcosa di straordinario, specie se legato al passato e in contrapposizione al presente (si veda la vasta documentazione di vintage nell’OED).

Con tale estensione semantica la voce è rientrata in francese tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Novecento. Nel 2014 l’Académie Française ha dedicato a vintage un articolo all’interno della rubrica, di impostazione prescrittiva fin dal titolo, Dire, ne pas dire ‘(da) dire, (da) non dire’, più in particolare nella sezione Anglicismes, Néologismes & Mot voyageurs ‘Anglicismi, neologismi e parole viaggiatrici’. La prestigiosa Académie riconosce vintage come anglismo e ne autorizza l’utilizzo in senso proprio, cioè enologico; ne deplora invece l’estensione semantica in base alla quale viene impiegato “per descrivere qualsiasi oggetto che […] abbia acquisito valore con l’età” e indica come sostituti “la locuzione aggettivale d’époque o, se si vuole mantenere la metafora del vino, […] l’aggettivo millésimé”, oppure la locuzione des années xxx (per esempio una borsa vintage ® una borsa degli anni xxx; traduzioni mie).

Le fonti peraltro o sono vaghe o discordano sul quantificare quanto debbano essere antichi un oggetto o una tendenza per essere definiti vintage. Alcune fonti, forse sul cavallo di una etimologia popolare che avvicina vintage al francese vingt ans ‘venti anni’, circoscrivono temporalmente il vintage a oggetti o capi che abbiano almeno vent’anni (cfr. per esempio, s.vv., Lessico del XXI sec. Treccani, Le parole della moda [2016] di Anna Canonica-Sawina e Lexique bilingue de la mode / Bilingual Fashion Glossary [2012] di Vincent Beckerig e Tania Sutton). Tale indicazione, seppur arbitraria, può indicare un plausibile terminus ante quem; per stabilire il terminus post quem si può ricordare l’autorevole parere di Alexandre Samson, storico della moda e responsabile della collezione contemporanea del Palais Gallera di Parigi, secondo cui possono definirsi vintage capi antichi che abbiano un legame con la contemporaneità e che dunque eludano l’effetto “costume d’epoca”; soddisfanno tale prerogativa, secondo Samson, i capi confezionati a partire dagli anni Venti del Novecento, cioè da quando vengono definendosi le basi del nostro modo di vestire (la testimonianza è resa a Valérie Saugera nell’articolo La fabrique des anglicismes, “Travaux de linguistique”, 2017/2 n. 75, pp. 59-79: p. 66).

CONTINUA A LEGGERE

X