Tratto dall’Accademia della Crusca
Tra le figure che non possono mai mancare in un presepio della tradizione napoletana figura la coppia dello zampognaro e del pifferaro: si tratta dei suonatori di zampogna e di piffero che si vedevano realmente e regolarmente, ancora almeno fino agli anni Sessanta, in molte città italiane dell’Italia centromeridionale prima e durante le feste natalizie. Discesi da paesi appenninici, essi si esibivano per strada; spesso, però, non si trattava di una coppia ma di un trio, perché gli zampognari erano due e il secondo, più giovane e meno impegnato musicalmente, a un certo punto interrompeva di suonare per chiedere i soldi ai passanti, porgendo loro il proprio cappello, e per raccogliere per terra le monete che venivano lanciate dalle finestre. La tradizione, mutatis mutandis, esisteva anche in Toscana e in varie zone dell’Italia settentrionale. I nomi italiani dello “strumento musicale a fiato di origine e carattere pastorale, costituito da una o più canne sonore fissate ad altrettante aperture di un otre di pelle, nel quale si accumula l’aria immessa tramite un cannello dalla bocca del suonatore o da un mantice da lui manovrato con il braccio” (questa la definizione di zampogna nel GRADIT) sono vari e, lasciando da parte il piffero, li passiamo in rassegna.
Zampogna
Iniziamo da quello che forse va considerato il nome più tipicamente natalizio dello strumento e vediamo anzitutto le definizioni che ne danno G1 e G2:
zampogna, strumento popolare affine alla cornamusa, diffuso soprattutto nella Calabria e negli Abruzzi. È formato da una sacca di pelle, di pecora o di capra, cui sono connessi tre o quattro tubi sonori ad ancia doppia. Solo due di questi tubi posseggono fori che permettono di variare l’altezza del suono. Gli altri tubi sono invece a suono fisso e generano il caratteristico accompagnamento in bordone, che tanti musicisti hanno imitato nei brani “pastorali” della tradizione sinfonica.
zampogna, strumento aerofono della musica popolare diffuso in una grande varietà di tipi in tutta l’Europa, in Asia sino all’India, e nell’Africa settentrionale. Consiste in una o più canne sonore inserite in appositi innesti di legno, di corno o di metallo (blocchi) fissati ad altrettante aperture di un otre di pelle entro il quale si accumula l’aria, immessavi tramite un cannello dalla bocca del suonatore o da un mantice da lui manovrato con il braccio. L’aria, sotto la pressione del braccio del suonatore che stringe l’otre, alimenta le ance semplici o doppie di cui le canne sono munite. Una o due di queste (chanter) sono dotate di fori per le dita, e producono la melodia e l’accompagnamento armonico ritmico; le altre canne (bordoni) sono prive di fori e producono ciascuna un’unica nota costante, che fornisce l’accompagnamento di base, in accordo consonante con la nota fondamentale del chanter. L’origine della z. va collocata probabilmente nel Vicino Oriente attorno agli inizi dell’èra cristiana. Essa era comunque nota ai romani (tibia utricularis), anche se considerata strumento esotico e di uso marginale. Nel medioevo la z. divenne in occidente uno degli strumenti più diffusi […] // Nome attribuito per antonomasia allo strumento a riserva d’aria diffuso nell’Italia centro-meridionale, e caratterizzato dalla presenza di due chanter, intonati da intervallo di quarta o di ottava, e uno o più bordoni tutti raggruppati in un unico blocco inserito nel collo dell’otre. [I diversi tipi sono raggruppabili in 2 categorie]: una a chanter conici ad ancia doppia, con canne diseguali, e l’altra a chanter cilindrici o cilindro-conici con canne di eguale lunghezza. Tra le prime spiccano la z. a chiave e la cosiddetta zoppa (priva di chiave), diffuse in Lazio, Molise, Campania, parte della Calabria e della Sicilia (Palermo); tra le seconde, le z. dette a paro (Calabria, Sicilia orientale), la surdulina italo-albanese, la z. di Fossalto (Molise) con tubi di canna. […] // Nome attribuito talora a vari strumenti che somigliano alla z. propriamente detta per timbro o perché muniti di ancia […].
La parola (che per il GRADIT rientra nel Vocabolario di Base, nella sezione delle voci “ad Alta Disponibilità”) è documentata già in italiano antico e il primo esempio registrato nel TLIO è quello tratto dal volgarizzamento fiorentino del Tresor, della fine del sec. XIII:
E [[il cecino]] volentieri ascolta; quando oda cantare, o sonare suono di zampogna, dolcemente vi si raunano
Un esempio importante, che di certo ha contribuito a mantenere viva la parola nella tradizione letteraria, è quello di Dante, all’interno di una similitudine:
E come suono al collo de la cetra / prende sua forma; e sì come al pertugio / de la zampogna vento, che penetra; / così rimosso d’aspettar indugio / quel mormorar de l’aguglia salissi / su per lo collo, come fosse bugio. (Paradiso, c. XX, vv. 22-27)
Ma in italiano antico è diffusa soprattutto la forma sampogna, che è infatti scelta come voce principale nelle quattro edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca in cui il termine è registrato, nonché quella più vicina all’etimo. La parola costituisce infatti “l’esito popolare del lat. symphonĭa, dal gr. symphōnía nel sign. di ‘strumento musicale’ con rafforzamento della s- e abbassamento della -i- pretonica davanti a nasale” (l’Etimologico) e ha come allotropo dotto appunto sinfonia, anch’esso documentato già in italiano antico, ma con l’accentazione alla greca (questa coppia di allotropi ricorda un po’ quella formata da piazza e platea) e il sign. di ‘fusione di suoni, accordo, armonia; orchestra’. La separazione tra musica colta e musica popolare è qui netta e non a caso tra gli aggettivi che affiancano zampogna figura spesso (per es. tra le rime degli Arcadi) umile (a volte da leggere, per motivi metrici, come umìle).
Proponiamo due esempi in prosa novecenteschi, nel secondo dei quali le zampogne natalizie appaiono già come un ricordo del passato:
La vigilia di Natale, Marco Picotti sentiva venire dalla strada il suono delle zampogne e dell’acciarino [‘strumento musicale a fiato’, termine registrato nel GDLI come disus[ato], n.d.r.] e il coro delle donne e dei fanciulli per l’ultimo giorno di novena davanti alla cappelletta parata di fronde; udiva lo schioppettio dei due grossi fasci di paglia che ardevano sotto quella cappelletta; e così angosciato, si disponeva ad andare a letto all’ora solita, allorché una furiosa scampanellata lo fece sobbalzare, quasi con tutta la casa. (Luigi Pirandello, Luigi Pirandello, L’uccello impagliato, in “Corriere della Sera”, 16 gennaio 1910, p. 3; poi in Id., Terzetti, Treves, Milano, 1912; infine in Id., Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 1937-1939, vol. II, p. 853)
Per le strade, nei negozi, negli uffici, nelle fabbriche, uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi l’un l’altro, come automi, delle monotone formule: buon Natale, auguri, auguri, a lei, grazie altrettanto, auguri, auguri, felici feste, grazie, auguri, auguri, auguri. Era un brusìo che riempiva la città. «Ma ci credono?» chiese il bue. «Lo dicono sul serio? Vogliono veramente così bene al prossimo?» L’asinello tacque. «E se ci ritirassimo un po’ in disparte?» suggerì il bovino. «Ho ormai la testa ch’è un pallone. Comincio a sentire nostalgia di quella che tu chiami atmosfera natalizia.» «Be’, in fondo, anch’io» disse il somarello. Sgusciarono attraverso le cateratte vorticose d’automobili, si allontanarono un poco dal centro, dalle luci, dal frastuono, dalla frenesia. «Dimmi, tu che sei pratico» chiese il bue, ancora poco persuaso «ma sei proprio sicuro che non siano usciti tutti pazzi?» «No, no, è semplicemente il Natale.» «Ce n’è troppo di Natale, allora. Ma ti ricordi, quella notte, a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino? Era freddo, anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!» «È vero. E quelle zampogne lontane, che si sentivano appena appena». (Dino Buzzati, Troppo Natale, “Corriere della Sera”, 25/12/1959, p. 3; rist. in Id., Lo strano Natale di Mr Scrooge e altre storie, Milano, Mondadori, 1990)
Tra i derivati di zampogna, si segnala anzitutto zampognaro (da notare la presenza del suffisso -aro e non -aio, che ne documenta l’origine non toscana), che indica (a partire dalla fine del Cinquecento) il suonatore di zampogna e che documentiamo con l’inizio di una poesia per l’infanzia di Gianni Rodari intitolata appunto Lo zampognaro:
Se comandasse lo zampognaro / che scende per il viale, / sai che cosa direbbe / il giorno di Natale? / «Voglio che in ogni casa / spunti dal pavimento / un albero fiorito / di stelle d’oro e d’argento». (Gianni Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, Torino Einaudi, 1972 [19601], p. 98)
Esiste poi, ma è ormai arcaico, il verbo denominale zampognare ‘suonare la zampogna’, registrato nella 3a e nella 4a edizione del Vocabolario della Crusca, con un esempio (forse non autentico) da una predica di fra’ Giordano da Pisa (“I pastori che dolcemente zampognavano”), ma documentato anche nel GDLI, con esempi del sec. XV (e pure con significati traslati). Le stesse due edizioni della Crusca registrano anche zampognatore ‘che zampogna’ (invece di zampognaro) e la 4a edizione anche il diminutivo zampognetta, con un esempio dal Morgante del Pulci (“Io me ne vo pe’ boschi puro, e soro / con la mia zampognetta, che pur suona”), mentre molto più recente è zampognata ‘sonata di zampogna’, registrato con la data 1987 nel GRADIT (che lemmatizza pure il participio passato zampognato). Il GDLI registra anche il parasintetico inzampognare (o insampognare), che è lemmatizzato (solo nella forma con z) fin dalla 1a ed. della Crusca, con semplice rimando a finocchio, ma glossato, come ‘infinocchiare’, già nella 2a (nelle successive, compresa la 5a la voce viene via via ampliata e corredata da esempi).