A leggere i primi titoli dei giornali italiani sulla scomparsa, a settantotto anni, di Marianne Faithfull, si direbbe che la sua vicenda personale e artistica si sia conclusa negli anni Sessanta – icona della Swinging London, musa di Mick Jagger e simili banalità – e che vi sia stato poco o nulla di significativo nei decenni successivi nella sua vita. Niente di più sbagliato. Marianne Faithfull – al di là del gossip e della morbosa attenzione che la stampa le riservò negli anni in cui faceva parte dell’élite del pop britannico – è stata ben più artisticamente rilevante e attuale alla fine degli anni Settanta e dopo, come dimostrato da una serie di album che hanno lasciato il segno.
E quando i Rolling Stones del suo ex partner, nel disperato tentativo di rimanere attuali, si prestavano alla discomusic (peraltro con esiti discutibili), lei pubblicava un album come “Broken English” (1979), che – con i suoi richiami al gruppo Baader-Meinhof (la title track) e alla più incontinente gelosia sessuale (la straordinaria “Why d’Ya do it?”), la cover dolente di “Working Class Hero” di John Lennon, gli arrangiamenti radicali e le sue interpretazioni lancinanti – rappresenta una delle vette assolute del post-punk inglese e coglie alla perfezione lo spirito di quegli anni difficili.
Un album inarrivabile, esito di un lungo e complicato periodo di fuga dalla effimera fama degli anni Sessanta e di fascinazione per la way of life degli outsider e dei derelitti e per la letteratura del William Burroughs di Naked Lunch e Junkie. Un periodo che l’aveva segnata nel profondo e che si era riflesso sulla sua voce, un tempo angelica, ora roca e straziata, ma mille volte più espressiva e “vera” che in precedenza.
Diversamente da grandi cantautrici come Joni Mitchell e Laura Nyro, Marianne fu soprattutto un’interprete eccezionale, capace di appropriarsi di pezzi di altri autori e di renderli propri, come fossero sue composizioni, e abile nel circondarsi di collaboratori (Barry Reynolds, Steve Winwood, Angelo Badalamenti, PJ Harvey, Nick Cave) e musicisti di grande caratura (tra gli altri, nel magnifico live Blazing Away, Garth Hudson, Dr John, Marc Ribot e Lew Soloff). E in effetti la dimensione dal vivo le si addiceva pienamente. Aveva una capacità straordinaria di entrare in sintonia col pubblico e di renderlo partecipe dell’intensità e del pathos delle sue interpretazioni.
Sapeva trasformare la sua vita in musica. Un’attitudine che – a dimostrazione della sua versatilità artistica – le tornò utile anche nelle (rare) occasioni in cui recitò in teatro e in alcuni film.
A chiunque sia interessato ad approfondirne la vicenda umana e artistica, le passioni, il ruolo della musica e della letteratura nella sua vita, gli incontri con i protagonisti della controcultura americana e britannica, consiglio la lettura della sua straordinaria autobiografia. Forse la più bella e coinvolgente che abbia mai letto. Meglio anche di “Life” di Keith Richards. Ed è tutto dire.