Non sappiamo chi abbia composto questa raccolta di foto, tra l’altro scrivendo con cura accanto a ognuna gli angoli delle strade e il nome degli edifici, quasi preoccupato di non farci smarrire. Ma non dovrebbe essere ancora vivo. L’abbondanza tra i passanti di divise militari e di marinai, il taglio elegante e ampio dei vestiti e delle auto, fa riferire le foto ai primi anni Quaranta. Il nostro anonimo è uomo forse anziano, che si ritaglia una ben strana New York, diversa da quella che cresce troppo in fretta e fa traslocare ogni tre o quattro anni e finire nei grattacieli sempre più in su. La New York di questa raccolta è calmata dal ricordo; adatta a chi, dopo aver percorso i suoi marciapiedi, con ostinatezza la tenga lontana da ogni epica. La sua città non è l’ultimo passo del cammino dell’umanità; non c’è una sola immagine che ne dia la sua frenesia che contagia il mondo. Piuttosto la città, che era già allora la più potente del pianeta, viene ritratta nella calma domenicale di un ricordo. C’è il disagio per la sua potenza, ma esso è pure lontano.
La raccolta, del resto, non inizia dal cielo, dai grattacieli forati da milioni di quadratini di luce, tutti uguali. Il nostro non è un turista, li vede senza epico incanto. È piuttosto flemmatico, amministra il ricordo, non lo rimpiange ma neppure ha bisogno del richiamo dei grattacieli per iniziare a spiegare New York. Con logica inizia da una stazione. Vi arrivò ragazzo da chissà dove o ci incontrò al primo appuntamento la moglie o vi si perse, vagandovi annoiato? Non sappiamo, e tuttavia la prima delle nostre foto è la stazione Pennsylvania sulla Settima Avenue. Marciapiedi che paiono ancora più grandi, in una giornata estiva che fa somigliare quella stazione ferroviaria al colonnato di un tempio. In effetti, che la memoria del nostro inizi da una stazione è molto ragionevole.
Quale altra nazione ha tanto divinizzato la circolazione di tutto? Dunque è ovvio che erigesse gli atri ferroviari come templi pagani, dove gli uomini si perdono, minuscoli. E comunque, la stagione estiva, col suo abbondare di luce che si spegne sui marciapiedi, e soprattutto la guerra sospendono gli uomini delle nostre foto, che non sono mai molti. Il nostro fotografo se ne compiace, ricerca il tempo della memoria, senza fretta. Questa attitudine, che volentieri rema controcorrente verso il passato, la ritroviamo pure nel General Post Office, edificio poco americano. Ma forse perciò molto di New York, che è ovunque riassunto inatteso dell’Europa, richiamo a essa, potremmo dire addirittura un suo continuato invecchiamento. Giacché appunto i negozi e le consuetudini scomparse in Europa sono protetti e seguitano a vivere senilmente in America, che li contorna però di una volontà oltreoceano svanita. E la scritta sull’ufficio postale ce ne avverte: né la neve né la pioggia né la tempesta fermeranno ogni epica di questa nazione, abbisogna di una volontà sterminata.
Ma eccola l’America scintillante nella giornata estiva: le miriadi di desideri già desti, soprattutto pratici, ben disposti ad adoprarsi per ogni utilità dell’anima, purché comoda. E intorno, nerastre e tutte concentrate le ombre dei grattacieli che si schiacciano per terra. Cosicché lo sguardo più in fretta risale, e insegue i desideri fino alle loro altezze babeliche, quindi confuse, ma sterminate. Scrive Le Corbusier, “Trecento metri di altezza, in pietra, ferro e vetro, verticali nel magnifico cielo blu di New York, rappresentano un fatto nuovo nella storia umana che, su tale tema, finora possedeva un’unica leggenda: quella della torre di Babele”. Spettacolo ineffabile, scala di tempi nuovi che promettono il cielo, ma a patto che il caos mercantile non cessi mai. Eresia biblica, che non pare persuadere il nostro fotografo, pur operoso nelle sue inquadrature.
E che sia un dissidente, seppure nel culto della sua memoria, lo vediamo nel ritratto rassicurante delle due ragazze lontane ma a spasso serene nel sole estivo nella Quinta Avenue. Belle come la signora ripresa distante di spalle in una Broadway innevata, ritratta come non è, finta consueta e fumosa come la Londra di Dickens.
L’aria s’indovina inquinata ma manca la grande folla, inesauribile marea di milioni di persone di ogni razza che si spinge e si affretta, che spende e lotta, tiene stretto, muore, si nasconde, chiede, cerca come ovunque, ma più in fretta che in ogni altro dove. Proprio a Broadway, dove si sente la vertigine, gli edifici ostentano occhi di vetro, tatuati di pubblicità, senza inizio o fine: qui l’impero dei desideri diventa materia fluida irrefrenabile che contagia tutti. Ma il nostro la raffredda, la congela in neve, così da renderla più lieve. Spiega Apocalisse 18:3: “e i mercanti della terra si sono arricchiti con gli eccessi del suo lusso”. Mai sarà vero come lo fu per i Morgan, giovane e vecchio, incarnazioni di una ricchezza che mai fu così sterminata, decisa in dormiveglia della pace o della guerra. Qui viene ritratta nel suo esito estetico, e civile: la Morgan Library.
Più che meraviglia a ben fissarli i grattacieli provocano sgomento, scala di desideri, data dagli altri troppo alta, anzi sterminata, senza proporzione alla nostra anima, alla quale però ci si deve adeguare. Un sentire europeo sano lo riconosce subito e così anche De Chirico vide New York. Il collezionista delle nostre foto invece non se ne rammarica, piuttosto tende a un gioco cinematografico, tenta l’impossibile: armonizzare i grattacieli con le case in stile francese a Midtown, Manhattan. Cinque piani ottocenteschi si sdraiano attorno alle quadrate dei grattacieli come funghi residui, spauriti, ancora non strappati via dall’uso solo venale dello spazio. Del resto, come scrive bene Vittorini, “New York ha significato per noi l’immagine istintiva di una Babele portata vittoriosamente a termine, e compiuta. I costruttori non si perderanno d’animo, non si divideranno, per il fatto di parlare linguaggi diversi. Impareranno a capirsi, bianchi con negri, arabi con ebrei, turchi e armeni, sloveni e italiani, boemi e tedeschi, inglesi con russi; impareranno a capirsi, e tireranno su fino all’ultimo piano la torre.
E la copriranno per abitarla una buona volta al sicuro dai fulmini”. Ecco la promessa di questa città, che nelle foto si avvera però in un rallentamento, in ritratti paradossalmente così fuori contesto. Nella Grand Terminal si indovina del resto ancora un’intenzione rassicurante, terrena, ma dentro c’è, inutile, la sconfinatezza di un tempio pagano. Pare di vedere Cary Grant che, impaziente, nel panico, cerca di comprare il biglietto in un film di Hitchcock. La città è posseduta da un babilonico intento che aumenta l’angoscia.
Ma la cautela, la memoria, l’introspezione, e soprattutto il desiderio di rallentare, non possono distogliere del tutto il nostro. Ed eccola la città, foto notturna, dei desideri compressi di giorno e svolti in luci e riflessi di macchine, rumori, frenesia, a Times Square. Eccola l’assoluta pazzia e il fantastico andirivieni di New York, con le luci che insegnano agli uomini come prendersi a gomitate all’infinito per il denaro con cui comprare dei sogni e confonderli con la vita.
Ecco i cartelloni dei teatri che si affollano in concorrenza e l’allucinazione di luci che prende i marinai e le signorine e li muta in folla che solo ambisce a confondersi con l’attore, a comprarsi la felicità della vita come si compra il biglietto di un film. È una tra le poche foto di questa raccolta in cui si cede alla vita com’è, alla sua sfrenatezza che, per contrasto, appare allora più insensata. Ma il nostro se ne ritrae.
Il Madison Square Garden è ritratto di nuovo nella luce estiva, rassicurante sotto un sole pervadente, desertico. Una vetrina di Saks sulla Quinta Avenue rimanda una immagine sinistra, inquietante. Il manichino è in controluce, e così pare una donna vera bellissima e che però non è. Dietro di lei delle maschere e un sipario. Il nostro ha letto Allan Poe, ineliminabile attore in una città misteriosa e rimossa che è anche orrore, come dovevano essere orridi, oltre che molto felicitanti, i culti di Babele.
Ma il grattacielo affilato e puntuto del R.C.A. Building, Rockefeller Plaza, tra la 49a e la 50a , ridà gravità pratica al nostro argomento. Misura la sterminata concretezza degli affari che annulla ogni metafisica e la ridicolizza, gli basta chiedere con sincera ingenuità quanto essa rende o quanto costa. Del resto, come sapeva Lewis Mumford, “L’alto grattacielo è il trastullo dell’uomo di affari, il suo giocattolo, il suo gingillo; nella sua voglia di grandezza, lo chiama alternativamente un tempio o una cattedrale e osserva il romantico disordine di altezze della città moderna con la stessa beatitudine che l’industriale vittoriano provava per le ciminiere delle fabbriche che eruttavano fuliggine e gas fetidi. Il grattacielo lo fa sentire fiorente anche quando è la causa delle sue perdite di denaro”. Sensazione che contagia chiunque, svia sempre dal resto.
Preziosa, a questo punto, un’altra citazione, stavolta di Ugo Ojetti, addirittura del 1899: “L’architettura americana si distingue per la quantità, per l’immensità o, se è più chiaro al nostro occhio latino rispettoso delle tradizioni, per la sproporzione fra la immanità della costruzione e gli stili d’ornamentazione”. Sentiamo in effetti che New York è ornata in stile posticcio, come un film di Griffith. È una mastodontica ornamentazione dei desideri babelici di tutti. Ma ritorniamo all’anima che compose la nostra collezione. Si lancia, sente finalmente dovere di distacco, e dall’alto ritrae potente paesaggio di grattacieli. Sono il Chrysler Building e tutti gli altri: vera essenza di New York. Eppure, tanto il nostro alla fine allarga l’inquadratura da ricomprendervi il contrasto: le guglie di San Patrizio. Gotico slancio al divino, sacrificio musicale, fuori posto, eccentrico, rispetto a quei templi semiti che sono i grattacieli, alla loro fredda ragione che calcola il cielo.
La musica abita nei teatri o nei numeri della borsa, non nelle anime. Eppure il nostro, tenace, non vi rinuncia. Anzi ricerca il contrasto, con foto dall’alto e dal basso dove San Patrizio si rivela accessorio del Rockefeller Center.
Un’altra stranezza è quella dei grattacieli ripresi dal basso del ponticello di Central Park, d’estate o nella neve. Squibb Building e Plaza fotografati in ricerca dell’identico contrasto precedente. E stavolta con la predilezione per il grattacielo col gran tetto, che poi è un non grattacielo, giacché esso, come la vanità umana, non ha fine e dunque col tetto ritornerebbe morale. Ma il nostro è alla ricerca di un senso morale. Forse perciò tutta l’ultima parte della raccolta è un indugiare nei luoghi più inattuali di New York.
I grattacieli sono gli stessi di un film di King Kong, anzi pare di vedercelo sopra nel panico, ingenuo e rancoroso, dello scimmione prima di morire. Ma a riconferma che il nostro fotografo è più che adulto, e se non vecchio almeno melanconico, ecco l’insistere sul Central Park: il viale ombreggiato, un bambino con le bretelle, la vita che riconforta, inatteso persino un carretto che trasporta i bambini, e gli animaletti dello zoo come quelli dei fumetti: e la sola fretta giustificata, quella di una piccola bambina assetata. Accanto, il laghetto con le barche a vela. Quando ancora esisteva l’Europa gli americani erano considerati infantili, con ciò li si scusava del resto.
Ma il New York Hospital riallontana verso il più inatteso Oriente. Dà la certezza di una città sumera, lo spazio è amministrato da mercanti ai quali preme l’utile più desolato, desertico di esiti umani. Persino nella forma di un ospedale conta l’allocarsi dello spazio. Nel bianco e nero di queste foto sentiamo meglio il deserto.
Detto in altra maniera questa raccolta offre non solo splendide foto di New York in anni compressi, come quelli della guerra, ma descrive il remare verso il passato dell’anima di chi le scattò, le compose assieme in una successione che non lascia dubbi. La città che egli vede sarebbe in verità la stessa riassunta da Salman Rushdie: “Ghotam City dove Joker e Pinguino facevano i loro comodi senza un Batman (e neppure un Robin) che sventassero i loro piani, questa Metropolis fatta di Kryptonite nella quale nessun Superman osava mettere piede, dove l’accumulazione era scambiata per ricchezza e la gioia del possesso per felicità…?”.
Il nostro lo sa, meglio di quanto non ammettano i suoi tentativi di composizione, addirittura i tentativi di idillio. Ultimo dei quali, il più improbabile per riassumere New York: la foto della Gracie Mansion, o le case coloniche olandesi e il monumento finale ai soldati e ai marinai, richiami moralissimi all’intento originario, sconfinato e semplice, spietato ma religioso, come doveva essere in una città che ai suoi inizi raccolse soprattutto mercanti e silenziosi marinai.
Forse solo supposizioni le nostre, per di più molto colpevolmente usate per argomentare i miei reazionari pregiudizi. Tuttavia questo possiamo non supporlo, ma darlo per certo: al nostro fotografo piacerebbe come riassunto finale la melanconia di questa frase: “E mentre meditavo […] pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle. […] Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una mattina. Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”. Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby, New York, Charles Scribner’s Sons”. (F. Scott Fitzgerald, The Great Gatsby, Collier Books, New York 1925, p. 182).