Il Grande MetodoLa vera resistenza al populismo sovranista richiede un antifascismo riformista

Come spiega Rocco Ronchi in “Populismo/Sovranismo” (Castelvecchi), i sovranisti di oggi non possono essere combattuti semplicemente smontando le loro tesi con argomentazioni razionali, ma agendo nel cuore vivo della società, costruendo alleanze strategiche e operando attraverso compromessi intelligenti, senza dogmatismi, a livello locale e nazionale

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“Populismo” e “sovranismo” sono concetti distinti. Confonderli in una imprecisata nozione di “populismo sovranista” è una semplificazione magari utile a scopi giornalistici ma irricevibile da storici delle idee e politologi. Per questo è meglio tenere assieme le due etichette con una barra separatrice. Tuttavia l’endiadi è giustificata sul piano filosofico, posto che si comprenda appieno la specificità della domanda filosofica, che cosa essa veramente chiede. Vi è infatti un dato comune ai due concetti. Quali che siano i populismi in questione, quale che sia la forma della sovranità che viene rivendicata, non vi è dubbio che la “sovranità del popolo” è sempre fuori discussione. Il libero consenso di una maggioranza, un consenso tendenzialmente plebiscitario, è l’anima “democratica” di tutti i populismi e di tutti i sovranismi, compreso il loro prototipo fascista. 

È a questo livello che l’interrogazione filosofica diventa pertinente. Perché la filosofia procede diversamente rispetto alle scienze storico-sociali, le quali assumono un dato di fatto per schizzarne una fenomenologia e per spiegarne la genesi. Il suo “soggetto” la filosofia invece lo costruisce sul filo del proprio domandare. Non è il presupposto ma il termine della ricerca. L’evento planetario populismo/ sovranismo suscita così nel filosofo una domanda di tipo “genealogico”: non è la genesi del fatto che lo interessa, ma la sua origine dissimulata nel fatto. A differenza delle cause che interessano lo storico, l’origine ha infatti la peculiarità di non assomigliare al fenomeno che ne deriva. Spesso, anzi, è in contraddizione con il suo senso manifesto. 

Così, ad esempio, la biologia evoluzionista deve arrendersi all’evidenza che la continuità di un processo evolutivo si regge su vere e proprie rotture epistemologiche in forza delle quali determinati eventi assumono un nuovo significato, incommensurabile con il precedente, seguendo una logica di cooptazione. Una piuma, se stiamo al celebre esempio di Stephen Jay Gould, da istanza di termoregolazione è “reinterpretata” dall’evoluzione come un meccanismo atto a far volare. 

Allo stesso modo se ci si interroga filosoficamente su quel “popolo” che si pretende “sovrano”, sulla sua potenza e sulla sua capacità di mobilitazione, si fanno scoperte tanto interessanti quanto controintuitive perché a uno sguardo genealogico il soggetto chiamato in causa da questo evento planetario si rivela imparentato con il soggetto autonomo, libero, responsabile e critico che proprio dall’endiadi populismo/sovranismo si sente oggi minacciato di estinzione: i due hanno in realtà la stessa genesi, amano la stessa libertà, professano lo stesso sfrenato individualismo.

Il primo, nelle attuali circostanze, è solo più efficace del secondo. È alla metafisica moderna della libertà, alla sua insorgenza e alla sua revisione postmoderna, che, nella prima parte di questo saggio, si farà allora riferimento per schizzare la genealogia illustre di un fenomeno che solo una miopia teorica intrisa di malafede confina nelle nebbie della eterna ignoranza delle plebi bisognose come un gregge di un capo che le guidi. 

Il populismo sovranista ha padri nobili e insospettati, spesso gli stessi che vengono additati come esempi di resistenza al pensiero unico: dal Dostoevskij del “sottosuolo” all’osannato Pasolini “corsaro”, dall’anarca di Stirner al Bartleby melvilliano, senza trascurare la singolare convergenza del populismo sovranista con le teorizzazioni postmoderne sulla natura del potere sovrano. Del prototipo fascista con il quale civetta elabora l’aspetto anarchico, rivoluzionario e fieramente irrazionalista, quello che aveva sedotto, come un nuovo mito, l’umanità disastrata uscita dal primo conflitto mondiale. 

Sul piano fenomenologico il popolo sovrano si presenta nella forma demonica della “legione”: un soggetto che si vuole incondizionatamente libero non può infatti che moltiplicarsi illimitatamente come massa oncologica, come un pullulare di resti che “avanzano” irresistibili, proprio come quelle gueules cassées che la propaganda prefascista del primo dopoguerra eleggerà a campioni della nuova giovinezza europea. La lingua parlata da questa soggettività dispersa e frantumata non può che essere una lingua formulaica, modulare, puramente performativa, una lingua i cui enunciati sono parole d’ordine e tessere a disposizione per un riconoscimento automatico tra uguali. Non si scopre certo nulla di nuovo affermando che l’“ocoparlare” di George Orwell è la lingua della “mobilitazione totale” di Ernst Jünger. Ma se tale è la genealogia illustre del fenomeno populista/sovranista, quali sono le possibili contromisure?

Il problema non è anodino. In ballo è infatti la praticabilità di un antifascismo militante. Non quello ideologico e spuntato dei dibattiti televisivi, nei quali sembra che a definire l’antifascismo sia una questione meramente nominalistica, come se bastasse “dirsi antifascisti” per esserlo. La democrazia, evocata come pharmakon del veleno populista, poi non basta perché la democrazia è il brodo di coltura del nemico che si vuole combattere. Ne fa fede il fatto che l’appello alla “democrazia” resta imprescindibile per i populisti. Secondo Bertolt Brecht per un antifascismo militante occorreva un «Grande Metodo».

Sappiamo cosa intendesse Brecht, ma il modo in cui lo presenta, costretto dalla situazione in cui si trova gettato, è qualcosa di ben diverso da una teoria che deve essere calata sulla realtà, costi quel che costi. Brecht non dice: il Grande Metodo è il materialismo dialettico di Marx ed Engels, o meglio, lo dice, lo ripete fino allo sfinimento, presentandolo però in una nuova veste incompatibile con l’ortodossia marxista. Il suo materialismo, infatti, a ben considerarlo, è un empirismo radicale, la sua dialettica è in realtà un pragmatismo. La sua proposta politica non è la rivoluzione ma è un riformismo ostinato, una instancabile negoziazione quotidiana, «una dottrina pratica delle alleanze dello scioglimento delle alleanze»1, che può essere equivocata, come di fatto è avvenuto, come cinismo e opportunismo. 

Così avrebbe dovuto funzionare praticamente per Brecht il socialismo. Così funzionava anche per Gramsci che in anni terribili, quando tutto sembrava irresistibilmente volgere al peggio, voleva correggere il razionalismo asfittico dei suoi compagni socialisti con una dose di pragmatismo e di volontarismo soggettivista che molto doveva a quegli stessi filosofi, Sorel in primis, che erano i numi tutelari del Mussolini “rivoluzionario” interventista e prefascista

Contrariamente a quello che generalmente si crede, Gramsci era consapevole del carattere intrinsecamente minoritario del socialismo e del carattere intrinsecamente maggioritario del suo avversario fascista. Una democrazia realizzata richiedeva perciò una minoranza agguerrita, dotata cioè di una metis, di una intelligenza pragmatica, che la rendesse atta a costruire come a sciogliere alleanze locali, a istituire blocchi sociali eterogenei, a governare processi, a osare arditi “compromessi” che fossero in grado non solo di arginare la tendenza avversa, ma di infletterla astutamente nella propria direzione. 

Ai materialisti dialettici che pensavano che la Storia fosse regolata da una legalità inflessibile, Brecht e Gramsci replicavano che la politica è sperimentazione e che la matrice della società civile è la guerra di posizione. Tutti i più innovativi concetti gramsciani nascevano dalla presa d’atto di questa situazione di crisi irreversibile della democrazia liberale: non solo l’“egemonia culturale” e il “blocco storico”, ma anche, e direi soprattutto, la sua idea machiavellica del Partito come Nuovo Principe. 

In questa prospettiva la “virtù politica” non è, insomma, nient’altro che un’arte cibernetica, un’arte del governo della nave, per la quale la democrazia stessa da fine in sé diventa semplicemente mezzo, buono quando funziona, non necessario quando è d’ostacolo. 

Il Grande Metodo si coniuga così con la Grande Politica nietzschiana che, a dispetto del nome, è una politica “minore”, una micro-politica intensiva, una sorta di techne che illumina di un senso inedito (e per noi straordinariamente più utile) ciò che Deleuze e Guattari alla fine degli anni Settanta, a chiusura di un decennio turbolento e straordinariamente vitale, hanno battezzato «macchina da guerra». A quella invenzione dei nomadi i due amici filosofi affidavano il compito di difendere la società da un nuovo incombente fascismo che, a loro giudizio, avrebbe fatto impallidire quello prototipico. 

Anche la macchina da guerra come il Grande Metodo brechtiano è frutto della metis riformista/revisionista e non della teoria, anch’essa sfrutta i cambiamenti e dipende dai cambiamenti, riconosce nelle cose dei processi e li segue, surfando sulla loro superficie, e, soprattutto, «insegna a porre delle domande che rendono possibile l’azione». L’intentio che anima le pagine che seguono è tutta contenuta in questa formula lapidaria di Brecht.

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Tratto da “Populismo/Sovranismo – Una illustre genealogia”, di Rocco Ronchi, Castelvecchi, 164 pagine, 18,50 euro

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