Separazione delle carriereIl garantismo non si concilia con il modello ungherese

Più che il merito della riforma Nordio preoccupano le intenzioni dei riformatori, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

Carlo Nordio, ministro della Giustizia (Roberto Monaldo / LaPresse)

Da decenni la magistratura italiana, sempre pronta a denunciare campagne di delegittimazione ai suoi danni, delegittima il parlamento, il governo e i partiti denunciando qualsiasi accenno di riforma come un attentato alla sua indipendenza, o più semplicemente come un tentativo di sottomettere la giustizia al potere politico. E ovviamente lo stesso vale per la riforma Nordio approvata ieri alla Camera in prima lettura, con il voto dei partiti di maggioranza, cui si sono aggiunti quelli di Più Europa e Azione (Italia viva si è astenuta). 

Chi abbia davvero a cuore lo stato di diritto, le garanzie costituzionali a tutela della libertà del cittadino e la separazione dei poteri non può non diffidare di simili allarmi, almeno se ha vissuto in Italia negli ultimi trent’anni, e li ha dunque sentiti utilizzare quotidianamente per difendere le peggiori aberrazioni, dall’abuso della custodia cautelare a quello delle intercettazioni, e più in generale una posizione di potere che ha garantito finora ai magistrati, al tempo stesso, il massimo di capacità di influenza e il massimo di impunità.

Da un certo punto di vista, è dunque naturale che liberali e garantisti, da sempre fautori della separazione delle carriere, considerino con favore il disegno di legge di revisione costituzionale. Il collegamento con la riforma del premierato e con quella della legge elettorale (possibile anche nel caso in cui la prima fosse rinviata alla prossima legislatura) non può però lasciare indifferenti i sostenitori dello stato di diritto, e anzi dovrebbe allarmare loro per primi. Tanto più dinanzi a una presidente del Consiglio che non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Viktor Orbán e per gli altri campioni della democrazia illiberale, oltre che per Donald Trump. 

Il rischio, insomma, è che l’allarme per il tentativo di sottomettere la magistratura al potere politico questa volta un qualche fondamento ce l’abbia, se non nel merito della riforma (che non pare così radicale), perlomeno nelle intenzioni dei riformatori. Intenzioni che peraltro hanno già dimostrato più volte di volere concretizzare, vedi ad esempio gli scomposti attacchi alla magistratura intorno alla questione dei centri albanesi per i migranti. 

Ho già scritto qui, appena due giorni fa, che se la riforma della giustizia fosse l’unica riforma costituzionale a restare in piedi, per questa disgraziatissima legislatura sarebbe un insperato lieto fine. Ma prima di appoggiarla le opposizioni, anche quelle che ieri in aula hanno detto un primo sì, farebbero bene ad alzare un po’ lo sguardo al complesso dell’iniziativa del governo, e a chiedere patti chiari.

Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.

X