Una kippah per teL’illusione della solidarietà contro l’antisemitismo in Italia

Gli ebrei continuano a vivere sotto minaccia, ma la comprensione delle loro difficoltà resta confinata a slogan e dichiarazioni di principio

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Ma se è vero che gli ebrei, oggi, rischiano insulti – o peggio – se girano con la kippah, perché non ci sono non-ebrei che la indossano a dar segno di una solidarietà un po’ più concreta rispetto alla solita, quella denominativa del no all’antisemitismo? Se è vero che gli ebrei, oggi, rischiano nel raggrupparsi davanti a una sinagoga, o a una scuola ebraica (questo raccomandano le Comunità: state attenti, non fatevi riconoscere, non state in gruppo e a lungo in quei luoghi), perché non ci sono non-ebrei che prendono il loro posto, esponendosi al rischio che corrono gli ebrei?

Mi pare che le spiegazioni possano essere soltanto due. La prima: non è vero che gli ebrei corrono quei rischi. Non è vero che, ottanta anni dopo, e nel Paese che ha scritto le leggi razziali, essere ebrei può rappresentare un piccolo o grande pericolo (sempre che sia un piccolo pericolo essere molestati in quanto ebrei). La seconda spiegazione: è vero che gli ebrei corrono quei rischi, ma non è un problema abbastanza importante affinché i non-ebrei, per contrastarlo, facciano qualcosa in più che impegnarsi nella già molto gravosa solidarietà denominativa del no all’antisemitismo.

Il fatto che la solidarietà denominativa del no all’antisemitismo arrechi poco pregiudizio ai responsabili dei gesti antisemiti, ovviamente, importa poco. Il fatto che l’andazzo antisemita prosegua e si ingrossi non ostante il vigore indiscutibile della retorica che lo ripudia, altrettanto ovviamente, importa poco.

Qualcuno potrebbe obiettare che la gente non può passare il tempo a difendere questa o quella causa, a proteggere questo o quel diritto, a tutelare questa o quella minoranza in modo fattivo. È vero. Qualcuno potrebbe aggiungere che, se non lo fa, questo non significa che sia intimamente disinteressata alla questione, e che quella causa, quel diritto, quella minoranza siano a quella gente indifferenti. È vero anche questo. Ma rispondere in questo modo denuncia, in realtà, altro.

Denuncia, dietro quell’apparente ragionevolezza, il lavoro di una motivazione diversa: l’indifferenza non già rispetto alla questione antisemita – quella mai, per carità – ma rispetto al fatto antisemita. È la motivazione, appunto, che fa affettare il no all’antisemitismo da convegno, da manifestazione, da talk, ma che inibisce qualsiasi fattiva iniziativa quando l’antisemitismo cessa di essere una vaga nebulosa facile da condannare e diventa la cosa concreta facile da lasciar correre perché a lasciarla correre – vorremmo negarlo? – è chi dice “no all’antisemitismo”. Piacerebbe un no all’antisemitismo in meno, e una kippah in più.

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