Mind the gapLa distanza salariale tra grandi e piccole imprese sta aumentando ancora

Le differenze di stipendio nel nostro Paese non sono legate tanto alla regione in cui si vive, ma piuttosto alla formazione, all’anzianità e alla dimensione dell’azienda per cui si lavora

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Forse ci sono pochi ambiti come quello dei salari in cui le medie sono quelle del famoso pollo di Trilussa. Cosa vuol dire che mediamente un lavoratore italiano prende 16,4 euro lordi all’ora, come afferma l’Istat nel suo ultimo report sulle retribuzioni? Che siamo più poveri degli altri europei, ma questo in fondo si sapeva. Il dato più interessante è invece perché si arriva a questa cifra, ovvero chi alza e abbassa tale media.

Tra questi ultimi, altro dato risaputo, ci sono le donne, che percepiscono 15,9 euro all’ora, contro i 16,8 degli uomini, e questo divario, fatto forse meno scontato, rimane elevato, e anzi sale, con il crescere del titolo di studio. Se le lavoratrici laureate prendono 20,3 euro lordi l’ora, il 16,4 per cento in meno rispetto ai 24,3 dei lavoratori di genere maschile, il gap tra chi non arriva al diploma è del 15,3 per cento. Perlomeno, però, è da sottolineare che tra il 2018 e il 2022, anno cui risale l’ultima indagine, i salari sono cresciuti di più per le donne con titolo universitario che per gli uomini con la stessa istruzione, +3,6 a +1,7 per cento. È probabilmente anche uno dei segni dei progressi negli studi delle studentesse, che ormai sono la maggioranza dei laureati, oltre che coloro che ottengono i voti più alti. Tuttavia il divario cresce nell’ambito dei diplomati e di quanti hanno un’istruzione inferiore, qui sono state le retribuzioni degli uomini ad aumentare maggiormente.

 

Dati Istat

Nel complesso studiare conviene, chi finisce l’università prende ventidue euro all’ora, ben sette euro in più rispetto a un diplomato e questa differenza è molto superiore di quella che esiste tra i generi. In sostanza una donna laureata prende molto più di un uomo che si è fermato alle superiori, la differenza è di quasi il trenta per cento, maggiore di quella di alcuni anni fa. Il divario tra laureati e diplomati cresce con l’aumentare del numero degli addetti, nel caso delle grandi imprese con più di mille dipendenti è del 45,2 per cento e non è cambiato molto nel tempo, mentre è sceso nel caso delle piccole e medie aziende, in quelle con dieci-quarantanove addetti è del 23,6 per cento.

Dati Istat

Entra in gioco qui un altro fattore che forse è importante tanto quanto l’istruzione, ovvero la dimensione dell’impresa. E a differenza che per l’istruzione in questo caso tra prima e dopo il Covid i divari sono ulteriormente cresciuti. Coloro che sono occupati in realtà con dieci-quarantanove addetti prendono il 33,3 per cento in meno di coloro che lavorano in una con più di mille, spesso una multinazionale, mentre nella rilevazione precedente il divario era del 27,9 per cento. Sale al 34,9 per cento nel caso dei laureati e scende al 14,8 per cento per coloro che non hanno terminato le scuole superiori. È facile immaginare come in grandissime aziende molto strutturate, oltre che ad alto valore aggiunto, con una maggiore varietà di mansioni, sia più probabile fare carriera e raggiungere posizioni ben pagate, soprattutto per coloro che hanno le competenze che lo consentono.

Dati Istat

Una conferma viene dai dati riguardanti l’anzianità di carriera. Anche in questo caso con il tempo i divari si sono approfonditi, chi ha iniziato da meno di quattro anni prende mediamente il 37,5 per cento in meno rispetto a chi ormai, con più di trentacinque anni di lavoro alle spalle, è piuttosto vicino alla pensione. Prima del Covid, nel 2018, tale gap era del 33,7 per cento. Sono numeri ampi anche perché nella media sono incluse le distanze tra i salari di dipendenti non solo con diverse anzianità, ma anche appartenenti a imprese di dimensioni molto varie.

È proprio nelle aziende più grandi, con più di mille addetti, che il divario tra lavoratori più giovani e anziani è cresciuto di più ed è tra i maggiori, del 34,2 per cento, mentre è sceso sotto il trenta per cento nelle realtà con meno di duecentocinquanta persone. Si può leggere il divario in vari modi, sottolineando la scarsa valorizzazione dei nuovi assunti, ma, con uno sguardo più positivo, anche il fatto che nelle imprese con più addetti è maggiormente possibile fare carriera con gli anni. In queste, del resto, i dipendenti prendono di più che altrove già appena assunti.

Dati Istat

E le differenze tra Nord e Mezzogiorno? In fondo sono queste quelle che vengono subito in mente ai più se si parla di disuguaglianze salariali, eppure sulla carta le differenze tra le retribuzioni del Sud e delle Isole rispetto alla media sono relativamente ridotte, solo del 4,3 e dell’1,8 per cento. Eppure è qui che è più evidente l’effetto Trilussa, potremmo chiamarlo, perché si tratta della media tra divari regionali molto differenti, per esempio quello presente tra gli uomini occupati con il diploma e quello che si riscontra tra le donne laureate. Nel primo caso, che riguarda molti più lavoratori, i salari del Sud e delle Isole sono del 10,8 e dell’8,9 per cento più bassi del dato nazionale, mentre nel secondo, più di nicchia, del 4,4 e del 6,4 per cento più alto.

Significa che nel Mezzogiorno le donne istruite hanno raggiunto la parità salariale e stanno addirittura meglio di quelle del Nord? La realtà è che si tratta dell’effetto prima di tutto di una forte presenza delle donne nello Stato, per esempio come insegnanti, dove le retribuzioni sono decise secondo meccanismi, diciamo, politici, e poi di una sorta di selezione effettuata dall’emigrazione. Di fatto le lavoratrici laureate del Mezzogiorno sono quelle che non sono dovute emigrare al Nord per trovare lavoro, magari perché occupate nel settore pubblico.

Dati Istat

Questo dimostra come spesso i numeri possano creare illusioni ottiche, soprattutto se non collegati ad altri parametri come il livello di occupazione. La realtà è che a decidere quanto un lavoratore percepisce in Italia è oggi ancora più di ieri l’anzianità e la dimensione dell’azienda in cui si lavora, e poi l’istruzione, più del genere o della regione in cui si vive. Un motivo in più per rendere la formazione centrale, quella formale, nella scuola, nell’università, e quella successiva, sul posto del lavoro, dopo i trenta e i quarant’anni, per consentire anche a chi parte dal basso, in una piccola realtà, in mansioni a basso valore aggiunto, di avere un posto al sole.

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