Fisico bestialeLa fatica è un concetto costruito culturalmente (e ogni epoca ha la sua)

In “Storia della fatica” (Il Saggiatore), Georges Vigarello spiega come la percezione della stanchezza si sia evoluta nel tempo, riflettendo le trasformazioni socio-lavorative e ambientali. Nell’antichità il concetto di sforzo era associato a un indebolimento e alla mancanza di fluidi vitali nel corpo, oggi ha un altro significato

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Le rappresentazioni del corpo e come esse si sono rinnovate nel corso dei secoli hanno guidato la percezione della fatica. L’immagine più antica associa la «condizione» fisica della fatica alla perdita di umori: un corpo affaticato è un corpo essiccato. La spossatezza è cedimento della sostanza, perdita di densità. Si tratta di un’immagine senz’altro «semplice», nata nell’antichità come conseguenza di una certezza: gli elementi preziosi del corpo sono i liquidi, quelli che sgorgano dalle ferite, si infiammano con la febbre e fuggono con la morte. Disidratazione e reidratazione delineano quindi i segni e il recupero del corpo stanco. Un corpo esangue è la rappresentazione ultima di una fatica altrettanto estrema.

(…) Oggi, infine, la fatica è percepita in termini digitali, si privilegiano i messaggi interni, le sensazioni di connessione e disconnessione. Ne consegue un ricorso sempre più accentuato allo svago, al rilassamento. O, ancora, l’inedita concentrazione sull’aspetto psicologico, su quello relazionale, sulla ricerca di interazioni, di mobilità, e anche sulle emozioni che lentamente si rinnovano.

Le varietà e i livelli di fatica si sono definiti nel corso dei secoli. La nostra civiltà ha inventato sensibilità, creato sfumature, portato un po’ alla volta alla luce fatiche dapprima inesistenti, e nel corso della storia ha scoperto condizioni a lungo ignorate. Sono apparse parole nuove, sintomi inediti sono diventati palesi. Come, per esempio, la «languidezza» evocata dai benestanti del xvii secolo che si lamentavano di debolezze e vulnerabilità sino ad allora sconosciute. 

O l’«indolenzimento muscolare» nato con la cultura del xviii secolo attenta all’intimo e alle sensazioni del corpo, espressione che designa quei dolori discreti e sino ad allora sconosciuti che sorgono dopo uno sforzo non preparato in maniera adeguata. Oppure, ancora, il «deperimento» evocato dal mondo operaio del xix secolo, che lascia intendere un indebolimento incoercibile che colpisce le generazioni, conseguenza tanto dell’indigenza quanto del lavoro eccessivo. 

I limiti si spostano, nuove gradazioni di fatica prendono piede avvilendo anima e corpo. L’universo del XX e del XXI secolo, epoca di una intensa psicologizzazione dei comportamenti e delle sensazioni, introduce differenze inedite. La sofferenza fisica, per secoli protagonista di lotte per il suo riconoscimento, non è di certo scomparsa. L’attenzione si sposta però verso effetti più eterogenei: inquietudine, malessere, impossibile realizzazione di se stessi. 

Alla fatica nata dalla resistenza opposta dalle cose si aggiunge una fatica nata dalla resistenza opposta da sé stessi, secondo un processo interno, personale, persino intimo. È all’interno di ognuno che si scoprono ostacoli e imprevisti, che nascono debolezze e cedimenti. 

Tutto si accentua nel momento in cui le nuove formule di gestione negano, al contrario, i valori individuali a favore di profitti immediati, generano precarietà, fragilità differenti, e una mobilità professionale non ricercata. Il tutto conduce verso una contraddizione estremamente attuale: «Un consumatore che ha il potere di decidere, un impiegato che lo perde e un cittadino che lo rivendica».

Tratto da “Storia della fatica” (Il Saggiatore) di Georges Vigarello, pp. 528, 35,00€

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