La tribuna è quella giusta: Davos, politica alta e finanza ancora più alta. L’occasione ghiotta: il primo discorso del presidente americano a poche ore dal giuramento. Una la novità nel suo discorso: abbassare il prezzo del petrolio per obbligare Vladimir Putin a trattare la pace con l’Ucraina (la Russia finanzia la guerra soprattutto grazie agli introiti derivanti dalla vendita di energia). Tuttavia, la Luna non può essere che il quadro d’insieme, da osservare con attenzione: agevolazioni fiscali a chi investe negli Stati Uniti, in alternativa dazi per accedere al mercato americano; cancellare le esose richieste di pagamento delle tasse rivolte alle aziende Big Tech; aumentare le spese per la difesa nei bilanci dell’Unione europea; appello rivolto a Giorgia Meloni e Viktor Orbán per aprire una ferita nel cuore dell’Europa; coinvolgere la Cina per raggiungere la pace nella guerra russo-ucraina; un macigno sopra l’industria green. Un bel cataclisma.
Il commissario agli Affari economici e monetari dell’Unione europea, Valdis Dombrovskis, ha risposto prendendo tempo: «Cercheremo il dialogo per trovare una via costruttiva». Poteva fare di meglio e di più. Di meglio e di più perché gli obiettivi di Donald Trump da tempo sono noti e da novembre, con la vittoria elettorale, sono diventati ufficiali, la visione del mondo della sua presidenza. E di meglio e di più perché non assistiamo a una fase di cambiamento ma di trasformazione della quale Trump, non da solo, è il campione.
Il cambiamento avviene nella continuità, la trasformazione con una rottura profonda, in questo tempo accelerata da una permanente rivoluzione tecnologica. Questa la differenza. È il terzo tempo della storia: dopo l’oralità e la scrittura, il web. Pensieri veloci, nessun approfondimento, attenzione periferica, relazioni fluide, acquose, che rendono incerto il cammino della democrazia favorendo la verticalizzazione del potere. Un tempo, questo, che rappresenta altresì la smentita più clamorosa della profezia di Marx alla quale hanno creduto milioni di persone. L’approdo della storia dell’umanità non sarà lo Stato socialista che ha debellato il mostro del capitalismo ma il turbocapitalismo, un capitalismo a fondamenta finanziarie sul quale la politica potrà poco o niente. «È la fine del mondo come l’abbiamo conosciuto», recita una canzone dei Rem. Hanno ragione.
Se le cose stanno così, ogni mediazione tra Europa e Stati Uniti, pur necessaria, non sfiorerà che marginalmente i nodi da sciogliere se resta l’unica bussola cui affidare la nostra sorte. Quando l’Europa era uno Stato-civiltà benché pluralista, i suoi valori si irradiavano sui continenti. Il pluralismo si è trasformato in divisione e presentismo, sentimenti entrambi pericolosi soprattutto quando la storia si avvita lungo tornanti ignoti la cui ascesa richiederebbe lungimiranza e unità d’intenti. La patria delle libertà individuali e del parlamentarismo, dei diritti civili e del welfare, costretta in un angolo perché non ha saputo tirarsi su dall’abisso nel quale sta precipitando da anni.
La ricetta ci sarebbe, in nulla differente nelle sue coordinate da quella adottata nel secondo dopoguerra e alla quale dobbiamo benessere e fine delle ostilità che per secoli avevano devastato campagne e città da Lisbona al Don. E pluribus unum nella politica estera, nelle decisioni economiche e finanziarie, nella politica di difesa. Chi vede leaders nati nel vecchio continente in grado di affrontare questo terzo tempo della storia ne faccia subito i nomi se non è già troppo tardi. Quelli attuali rischiano di essere studiati dalle prossime generazioni come gli ultimi prima del tramonto dell’Europa.