Chiunque scriva per mestiere o per diletto conosce il viaggio dell’eroe, la struttura narrativa ampiamente utilizzata per costruire storie, nata concettualmente da Joseph Campbell 6 e successivamente elaborata da Christopher Vogler nel suo libro Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito a uso di scrittori di narrativa e di cinema. Da quando ho cominciato a scrivere, mi sono interrogata a lungo su come una struttura di questo tipo potesse essere applicata a protagonisti e protagoniste con disabilità. Se persino lo stesso Joseph Campbell non considerava le donne viaggiatrici ma meta, è forse possibile che la costruzione del viaggio eroico crei cortocircuiti escludenti che vengono costantemente applicati ad altre identità marginalizzate?
Sulla base di questa struttura oggi sappiamo bene che non esiste viaggio se non c’è conflitto. Il nostro eroe o eroina entrando nel mondo straordinario dovrà affrontare una serie di prove, interiori o esteriori, le quali per essere generate hanno sempre bisogno di un conflitto. L’applicazione del viaggio eroico al contesto della disabilità apre un affascinante territorio di esplorazione narrativa. In questo percorso, la disabilità non dovrebbe essere un elemento di sfondo ma concepita come parte integrante dell’identità del personaggio. Eppure, la maggior parte delle storie che riguardano questo tema concepiscono la disabilità o come innesco narrativo del conflitto, o come prova da superare.
(…) Nella creazione di un personaggio con disabilità, che inevitabilmente si confronta con numerosi condizionamenti, è poco realistico escludere l’abilismo dalla trama narrativa. Tuttavia, se non si riesce a collocare la disabilità all’interno di una prospettiva politica e sociale, si rischia di rappresentarla in modo superficiale, utilizzandola esclusivamente come motore della storia. Questo approccio può portare a vedere la disabilità come l’ostacolo principale da superare nel percorso narrativo del personaggio, quando in realtà la vera fonte del conflitto è l’abilismo stesso.
In Avatar, film di James Cameron del 2009, Jake Sully accetta di andare su Pandora perché gli viene promessa l’operazione che lo farà camminare. L’epilogo che lo porta a vivere per sempre su Pandora come Na’vi di fatto soddisfa la premessa iniziale permettendogli di ottenere un corpo abile. In Io prima di te (2016), trasposizione cinematografica del famoso libro di Jojo Moyes, la disabilità non accettata da William Traynor diventa ostacolo alla sua storia d’amore, e non potendo in alcun modo ottenere un corpo abile sceglie di porre fine alla sua vita.
Allo stesso modo – come avviene nella maggior parte dei biopic sulla disabilità – le storie che non hanno un epilogo che si riflette fisicamente sul corpo hanno spesso un arco narrativo che si risolve con l’accettazione della disabilità attraverso un percorso di resilienza, il quale però non passa mai attraverso la comprensione dell’abilismo interiorizzato o la responsabilizzazione di una società carente.
È piuttosto evidente che la maggior parte delle narrazioni che coinvolgono la disabilità vengono ancora rappresentate attraverso la lente del modello medico, dove le difficoltà che incontra una persona disabile vengono ricondotte esclusivamente al suo corpo e non all’abilismo intrinseco dell’ambiente in cui vive.
© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Tratto da “Distorsioni” di Marina Cuollo (Einaudi), 63 pagine, € 2,99