OrbanismiIl flop albanese e la vera posta dello scontro con i magistrati

La differenza tra gli attacchi di ieri e quelli di oggi è che Berlusconi pretendeva di scegliere il suo giudice, Meloni il nostro, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

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Ci eravamo lasciati, venerdì scorso, parlando della fondamentale differenza tra gli attacchi alla magistratura del governo Meloni e quelli del governo Berlusconi, a partire dal caso Almasri. La mia tesi, per chi non avesse voglia di cliccare il link e rileggersi l’articolo, è che tra le due posizioni vi sia tutta la differenza che corre tra Silvio Berlusconi e Viktor Orbán, cioè tra un presidente del Consiglio che ha combattuto la magistratura per difendere se stesso, con alterne fortune, ma che di fatto non ne ha minimamente intaccato né la forza né l’indipendenza, e un autocrate che l’ha asservita al potere politico, facendone uno dei pilastri del suo regime illiberale.

Torno sull’argomento perché le ultime notizie provenienti dal fronte albanese, con l’ennesimo pronunciamento giudiziario che rispedisce in Italia i migranti appena sbarcati a Gjader, e soprattutto le reazioni di Fratelli d’Italia, mi sembra rappresentino la controprova di quali siano i reali obiettivi del governo nello scontro con la magistratura.

Bastava leggere ieri su Repubblica le parole dei capigruppo di Camera e Senato, Galeazzo Bignami e Lucio Malan, indignati perché «tutti e cinque i giudici che venerdì hanno firmato i provvedimenti della corte di appello provengono dalla sezione specializzata del tribunale di Roma». Una protesta sfociata in quella che definirei una piena confessione: «Il governo e il Parlamento hanno trasferito la competenza alla corte di appello per sottrarla alle sezioni del tribunale e loro migrano in massa: una presa in giro del Parlamento». Di qui, secondo lo stesso articolo, l’intenzione del governo di varare un nuovo decreto per impedire che nelle corti d’appello, ora titolari della convalida dei trattenimenti, finiscano gli stessi magistrati delle sezioni immigrazione depotenziate a fine anno.

Ecco dunque un’altra dimostrazione della differenza da cui ero partito. In poche parole, Silvio Berlusconi pretendeva di scegliersi il suo giudice, Giorgia Meloni pretende di scegliere il nostro. Se passa infatti il principio che la maggioranza parlamentare può non solo fare le leggi, ma anche decidere quali magistrati debbano applicarle, chiamiamoli pure – perché no? – tribunali speciali, mi pare evidente che a breve il problema non riguarderà più solo i migranti, ma tutti i cittadini italiani.

Il quadro non sarebbe completo, però, senza l’immancabile lato farsesco della vicenda, su cui si sofferma oggi su Linkiesta Cataldo Intrieri, notando come la questione della «migrazione» dei magistrati non dipenda da un complotto delle «toghe rosse» bensì dal semplice fatto che «le Corti di Appello non hanno magistrati sufficienti anche a causa dei ruoli scoperti della magistratura dovuti ai ritardi nei concorsi organizzati dal ministero di Nordio».

Lo stesso Intrieri, del resto, aveva già anticipato come sarebbe andata a finire la telenovela albanese in un articolo del 1° gennaio in cui aveva smontato la fantasiosa narrazione, colpevolmente accreditata da gran parte della stampa, secondo cui la Cassazione aveva dato ragione al governo e torto ai giudici. L’unica affermazione del suo articolo di oggi che non mi sento di sottoscrivere è quella in cui definisce «insensata» l’intera operazione albanese.

Io credo invece che un senso ce l’abbia, purtroppo, sia pure offuscato dalla propaganda, dalle risibili dichiarazioni di garantismo dei partiti di governo e dagli anacronistici riflessi condizionati di un dibattito pubblico sclerotizzato e insincero (vedi l’assurdo schieramento, sul caso Almasri, dei liberali contro il diritto internazionale e dei garantisti pro lager). Il modello è sempre lo stesso: l’Ungheria di Orbán, il paese guida della «democrazia illiberale», rispetto al quale lo stesso Donald Trump, prima con la conquista della Corte suprema e ora con le epurazioni in corso tra giudici e dirigenti dell’Fbi, non è che un epigono.

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