Camillo di Christian RoccaCome naviga, in un mare di debiti, l'immagine di Bassolino

Napoli. La grandeur partenopea di Antonio Bassolino rischia di annegare in un mare di debiti. I conti del Comune di Napoli sono in rosso da tempo: debiti per più di 2.125 miliardi, di cui 1.603 vantati da migliaia di artigiani e commercianti e da qualche centinaio di imprenditori, 5 miliardi e mezzo da dipendenti e 516 a copertura del rosso delle municipalizzate. Aggiungendo gli interessi e la rivalutazione monetaria, il totale si avvicina pericolosamente, ogni giorno che passa, ai tremila miliardi. Sono queste le incredibili cifre del dissesto finanziario del Comune di Napoli, che è all’origine di una crisi che rischia di far fallire migliaia di piccole imprese. Nonostante la stampa, anche quella locale, sia molto cauta, Antonio Bassolino comincia seriamente a preoccuparsi: come farà il sindaco-simbolo del riscatto napoletano a far fronte all’esercito dei creditori comunali, che uniti in comitato, lo incalzano assediando Palazzo San Giacomo e la Sala dei Baroni? Il Comune era stato dichiarato in dissesto nel maggio 1993, quando fu sciolto e conquistato, nell’autunno dello stesso anno, da Bassolino. Nei giorni scorsi, dopo più di tre anni di attività e con 24 mesi di ritardo, la Commissione liquidatrice nominata dal Tesoro ha finalmente reso note le prime cifre del disastro, destinate a salire man mano che si completeranno le verifiche. I creditori lamentano che il Comune e le aziende municipalizzate non avrebbero messo a disposizione dei liquidatori mezzi, documenti e personale per svolgere gli accertamenti. E la stessa Commissione si è rivolta alla procura della repubblica che ha avviato un’indagine affidata al sostituto Arcibaldo Miller.
Dunque, mancano circa tremila miliardi. L’allarme è scattato quando il pretore di Napoli ha ordinato all’amministrazione cittadina di pagare ad alcuni creditori 625 milioni, somma comprensiva degli interessi e della relativa rivalutazione monetaria, in base a quanto stabilito da una sentenza della Consulta del ’94. La decisione del pretore Iacobellis ha posto fine ad un lungo braccio di ferro tra i creditori e l’assessore alle Risorse Strategiche Roberto Barbieri, oggi deputato del Pds, che per molto tempo ha sostenuto che il Comune non avrebbe dovuto pagare gli interessi. Il rischio concreto di tempi eterni per la riscossione dei crediti ha allertato i creditori dei creditori, soprattutto banche e Inps, che a loro volta hanno agito per recuperare le loro spettanze da imprese, artigiani e fornitori vari coinvolti nel crac comunale. Il 31 maggio è intervenuto il governo con un decreto che ha creato molta confusione. Il provvedimento, in un primo momento, sembrava andare incontro alle tesi degli amministratori comunali. Tanto che i giornali hanno parlato di consolidamento dei debiti "alla napoletana". In realtà, il governo ha confermato l’indirizzo della Consulta: i Comuni in dissesto, nel momento in cui i bilanci tornano in bonis, hanno l’obbligo di pagare gli interessi e la rivalutazione. Un uno-due, il decreto e la sentenza del pretore Iacobellis, che mette seriamente nei guai l’amministrazione che, avendo approvato un bilancio in attivo, si è vantata di essere un modello di gestione finanziaria per il Paese. Ciò che lascia perplessi anche gli osservatori più benevoli, è la mancanza di una progetto realistico di soluzione e di rientro: l’emissione dei Boc per 300 miliardi a un tasso dell’11,50%, ad esempio, appare discutibile se si considera che un mutuo di pari importo con la Cassa Depositi e Prestiti sarebbe costato il 9%, con un risparmio, quindi, di 7,5 miliardi. Bassolino cerca di scaricare le colpe del dissesto sulle amministrazioni precedenti. In realtà la prima causa strutturale è l’alto numero di dipendenti, che per più di un terzo sono stati arruolati, a partire dal 1979, dalle Giunte rosse di Maurizio Valenzi. Il segretario del Pci a quei tempi era proprio l’attuale sindaco, che si diede molto da fare per le assunzioni di "disoccupati organizzati", ex detenuti, "cantieristi" e "liste di lotta": circa diecimila persone, che portarono a 30 mila il totale degli impiegati e salariati del Municipio. C’è poi il capitolo del disavanzo cronico delle aziende municipalizzate, vera e propria enclave di sperpero e inefficienza: l’ex Aman, ora Arin, cioè l’acquedotto, azienda nota per il favoloso contratto integrativo dei suoi dipendenti; l’Atan (trasporti urbani) tristemente nota per i suoi disservizi; la Centrale del Latte, cattedrale dell’assistenzialismo; la Ctp (trasporti metropolitani), in consorzio tra Comune e Provincia che, oltre al debito consolidato astronomico, è famosa per aver rovesciato il rapporto tra impiegati e personale viaggiante. Con oltre il 70% delle entrate assorbito dal personale e il resto a parziale copertura delle municipalizzate, era inevitabile che si accumulasse un debito consistente. Anche se, nel ’92, poteva ancora essere arginato con un vasto piano di privatizzazioni. Si decise, invece, di far ricorso alla procedura del dissesto, per ragioni più politiche che contabili. Se la Giunta Bassolino poi, non si fosse ostinata sulla linea di scontro con i creditori e avesse predisposto invece un piano di pagamento dei debiti ancorato alla privatizzazione delle municipalizzate e alla vendita dell’immenso e improduttivo patrimonio immobiliare, oggi la situazione non sarebbe così disastrosa. E anche l’immagine di Bassolino ne avrebbe tratto beneficio.

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