Milano. "Non vogliamo il governo dei sindacati". Anche ieri Giorgio Fossa è tornato all’attacco della politica economica del governo. Era solo il 18 maggio quando Cesare Romiti dava il là agli industriali italiani definendo il governo Prodi "una squadra eccellente". E solo pochi giorni fa, a Cernobbio, Gianni Agnelli spiegava che una politica economica rigorosa e di destra, è più facile che la metta in pratica un governo di sinistra. Ora, invece, il direttore di Confindustria, Innocenzo Cipolletta, dice che tanto vale nominare Sergio Cofferati presidente del Consiglio perché "quello che va bene a lui, va bene al paese". Nelle prese di posizione, sia pur caute in alcuni casi, degli industriali le lamentele per la manovra, che tutti considerano sbagliata, si accavallano a una riflessione di più lungo respiro, che fa i conti con le delusioni ricevute dal governo Dini con la riforma delle pensioni e la finanziaria ’96. I molti che si erano avvicinati all’Ulivo, sull’onda di un processo iniziato con l’impegno per le riforme istituzionali, e che aveva avuto nella concertazione del luglio del ’93 la sua punta più alta, cominciano ad avere dei dubbi. Tutti sono convinti che le misure varate dal governo produrranno una crescita del costo del lavoro e del costo del denaro. "Ero certo – dice Michele Perrini, proprietario della Sagsa e membro del direttivo di Confindustria – che un esecutivo di sinistra avrebbe agito così. La manovra è criticabile perché bisognava favorire lo sviluppo e non indebolirlo. Temo che questo governo non ostacoli l’arrivo di una pesante recessione". Luciano Botta, del direttivo di Assolombarda confida ancora in Prodi, anche se la delusione per la manovra è tanta: "Non capisco perché la chiamino ‘manovrina’; in realtà 16 mila miliardi rappresentano una ‘manovrona’. Lo 0,60% in meno di fiscalizzazione degli oneri sociali interviene sulla competitività delle nostre aziende, che hanno un costo del lavoro è altissimo". Il costo del lavoro preoccupa anche Riccardo Protti, vicepresidente di Assolombarda: "Anziché diminuire, il differenziale tra quanto guadagna un lavoratore e quanto costa alle imprese aumenta. Questa forbice andava ridotta e il governo, con l’accordo del luglio ’93, aveva preso un impegno. Invece hanno ridotto la defiscalizzazione degli oneri sociali… Il problema è che al governo le teste sono tante. Massimo D’Alema, Vincenzo Visco e Romano Prodi ci avevano fatto promesse, e non le hanno mantenute". Anche un imprenditore del Sud come Francesco Saverio Averna boccia senza mezzi termini la manovra: "Una stangata. Noi industriali, comunque, continueremo a giudicare il governo esclusivamente sui fatti. Il primo giudizio è assolutamente negativo". Per Gianni Barbaro, armatore palermitano,"la mossa del governo va nella direzione sbagliata". Alcuni settori, come quello farmaceutico, sono particolarmente esasperati dai provvedimenti economici dell’esecutivo: "L’Italia rischia di diventare un mercato d’importazione – accusa il presidente di Farmindustria, Federico Nazzari – la politica farmaceutica che si sta facendo finirà per distruggere il tessuto imprenditoriale del settore".
Il precedente dell’intesa con Mario Segni
Per capire la delusione degli industriali è interessante anche il parere di quegli intellettuali e uomini politici che hanno tentato un collegamento tra industriali e centrosinistra. Ferdinando Adornato – direttore di Liberal, la rivista che tenta di mettere insieme, intorno a un progetto di riforma delle istituzioni, intellettuali, politici e industriali, tra i quali Romiti – pensa che alla base ci sia un equivoco: "Una parte dell’establishment culturale non si dichiara di destra perché non è chic esserlo, ma capisce che lo Stato assistenziale ha fallito e che il nostro paese ha bisogno di puntare su logiche di mercato. Quindi pretende che le politiche rigorose le faccia il centrosinistra. Giorgio Bocca, ad esempio, inneggiava ai pensionati che protestavano contro la riforma previdenziale di Berlusconi e ora si chiede come uno Stato possa provvedere ai bisogni di tutti". All’alba degli anni Novanta, la Confindustria aveva inaugurato una nuova strategia nel rapporto con il mondo politico. "Di fronte alla crisi del Paese – ricorda Mario Segni, l’uomo politico al quale gli industriali si affidarono per portare avanti le riforme istituzionali – gli imprenditori decisero di uscire dai loro compiti specifici, assumendo un ruolo politico di primo piano". Per Segni quella fu una fase che dai vertici confindustriali fu vista come "eccezionale". "Finito quel periodo – dice Segni – il mondo industriale è tornato a intrattenere normali rapporti di lobbying con la politica per curare i propri interessi".