Pregiudizi. Dov’è scritto che l’usura debba essere necessariamente considerata un reato e gli usurai trattati alla stregua di atroci criminali? Prestare denaro non è mai stato popolare in nessun luogo e in nessun tempo – "ogni moneta è per sua natura sterile", diceva Aristotele, ideologo del partito anti usura – e chi sacrifica il presente al futuro, scrive Jeremy Bentham, è naturale oggetto d’invidia per chi, al contrario, sacrifica il futuro al presente. Pregiudizi, solo pregiudizi, forse. Ma come si fa a difendere i tassi elevati d’interesse? Come è possibile che ci sia qualcuno che guardi agli usurai come a dei semplici imprenditori? Il filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham (1748-1832) sull’argomento scrive addirittura un pamphlet che, nel 1787 quando uscì, fece scalpore, per il suo estremistico individualismo. Allora, alla Camera dei Lord di Londra si discuteva una legge contro l’usura, così come era all’ordine del giorno solo pochi mesi fa in Italia.
L’obiettivo di Bentham è quello di confutare la concezione giudaico-cristiana del credito gratuito: Mutuum date, nihil inde sperantes, è scritto nel Vangelo secondo Luca, da un prestito non deve essere atteso alcun interesse. L’anatema contro gli usurai parte da questa idea, ripresa e rafforzata poi dai Padri della Chiesa e da Tommaso d’Aquino e solo in parte trasformato dalla concezione calvinista. Resta il fatto che "quando si spera di ottenere denaro, e per un breve periodo dopo averlo ricevuto, colui che presta è un amico, un benefattore; ma quando giunge l’ora funesta del rendiconto, il benefattore cambia fisionomia, diventa un tiranno, un’oppressore, un usuraio". Bentham è un anticonformista, nella patria della common law sosteneva un’eresia – una cosa fuori dal mondo – sosteneva, addirittura, la codificazione del diritto consuetudinario inglese. Il diritto e la legge, per lui, avrebbero dovuto essere scritti. La legge sull’usura, al contrario, avrebbe dovuto essere cancellata.
Alla base della difesa dell’usura c’è un principio libertario che sarà poi ampiamente sviluppato da John Stuart Mill in "Sulla libertà": per Bentham, lo Stato non si può occupare di reprimere una pratica i cui eventuali effetti negativi ricadono esclusivamente su chi la compie. E in particolare, "nessun uomo adulto e sano di mente, che agisca liberamente e con gli occhi ben aperti – scrive Bentham a proposito di coloro che la legge definisce vittime dell’usura – dovrebbe essere ostacolato, con riguardo al suo vantaggio, dal compiere le transazioni che egli ritenga opportune per ottenere denaro". Ma anche il cosiddetto usuraio, per le stesse ragioni, "non dovrebbe essere impedito dal fornirglielo nei termini a cui egli ritenga opportuno acconsentire".
Nel saggio, Bentham utilizza l’espediente letterario di dodici lettere inviate a un anonimo amico (una tredicesima è spedita ad Adam Smith), preferendolo al dialogo o alla petizione che a quel tempo erano più di moda per questo genere. Il modello sono le Lettres provinciales di Pascal, una delle quali, piccola coincidenza – ricordano Nunzia Buccilli e Marco Guidi, i curatori del libro – è dedicata proprio all’usura. Ma sono anche le Lettere persiane di Montesquieu a influenzare Bentham, soprattutto per il tono distaccato che fa venire un po’ meno il carattere pamphletistico.
Il filosofo britannico, che si rivolge a un pubblico borghese, è fortemente convinto, non solo dell’inadeguatezza delle restrizioni penali, ma anche dell’assoluta dannosità e iniquità di tali misure di prevenzione. Partendo proprio dalle tesi che vuole confutare, lettera dopo lettera, Bentham riporta nelle missive al suo amico di penna le "ragioni per la limitazione" (prevenzione della prodigalità, dell’indigenza e dell’ingenuità) per arrivare alla conclusione che sarebbe meglio proclamare la libertà di fissare il tasso d’interesse se si auspica davvero la libertà d’impresa.
22 Aprile 1997