Camillo di Christian RoccaELEZIONI A TORINO (dove nacque l'Ulivo e rischia di morire)

Torino. Valentino Castellani, sindaco di Torino, spera proprio di no, ma i suoi avversari polisti già pregustano la rivincita. Che non è solo la battaglia per la conquista del Palazzo civico, né semplicemente la soddisfazione di ribaltare lo smacco subìto in tutti i collegi parlamentari il 21 aprile scorso, quando l’Ulivo fece cappotto: ventotto a zero. No, c’è dell’altro. Qui, dicono tutti, analisti e politici, quattro anni fa è nato l’Ulivo. Qui, sperano in molti, proprio dove e come è nato, ora potrebbe morire. E Castellani passerebbe alla storia per essere la persona che ha portato a compimento, suo malgrado, una specie di ossimoro politico. La fase ascendente della parabola è il suo vanto, e l’ha ripetuto anche l’altra sera alla presentazione della candidatura per la riconferma a Palazzo civico: la sua discesa in campo nel 1993, quella di un professore universitario cattolico ma anche laico, non-politico ma competente allo stesso tempo, ha dato il là al progetto e alla coalizione dell’Ulivo. Il governo di Romano Prodi altro non è che la proiezione nazionale dell’esperienza del professor Valentino. Non è stato lui forse a far convivere per la prima volta post comunisti e moderati post democristiani? Ma ora rischia. Rischia, il 27 aprile (giorno delle elezioni), di dare il là anche alla frantumazione dell’Ulivo, al colpo definitivo per l’alleanza prodiana. Il completamento dell’ossimoro politico. Se a Roma la coalizione scricchiola, a Torino l’Ulivo non esiste quasi più. In realtà c’è chi sostiene che non ci sia mai stato, neanche quando nel 1993 Castellani vinse contro la sinistra più radicale di Diego Novelli (al primo turno il Ppi andò da solo). Che cosa potevano fare al ballottaggio i moderati torinesi se non preferire il mite professore del Politecnico al "sindaco rosso" per antonomasia?

I grandi elettori e le grandi defezioni
Oggi Castellani, dopo quattro anni di governo della città, ha perso per strada qualche pezzo della sua coalizione. Il gruppo di Mario Segni è passato addirittura con il Polo e sostiene la candidatura di Raffaele Costa, i diniani fanno corsa solitaria (anche se al secondo turno si "apparenteranno" con Castellani), quel che resta dell’area socialista idem. E ancora, parte di quell’area laico-repubblicana da sempre forte in città l’ha abbandonato. Beppe Lodi, uno dei leader di Alleanza per Torino, la lista che sostenne Castellani nel ’93, si candida con Forza Italia; l’attuale vicesindaco liberale, Guido Brosio, ma anche i consiglieri Guido Rosenthal ed Elsa Fornero non si ricandidano. Così come l’assessore Piero Gastaldo, vicedirettore della Fondazione Agnelli. Tanto che oggi i sondaggi danno all’Alleanza poco meno del 3% delle intenzioni di voto. Senza contare, poi, che Rifondazione comunista non solo è concorrente diretta, come nel resto d’Italia, con il suo candidato sindaco, ma in questi quattro anni a Torino ha rappresentato la più agguerrita forza di opposizione a Castellani. "Un nuovo mandato al sindaco uscente – dice Alessandro Cherio, presidente dei giovani costruttori e candidato di Forza Italia al Consiglio – rischia di riprodurre a Torino il clima di ricatto e intimidazione che Rifondazione ha già instaurato a Roma". Ma Castellani può contare ancora su alcuni grandi elettori come Salza, ex vicepresidente del Banco San Paolo e presidente della Camera di commercio, e su Beppe Pichetto ex presidente dell’Unione industriale.
I critici accusano il sindaco di immobilismo e di non essere riuscito a dare risposte ai problemi della città. Eppure, sostiene Carmelo Palma, ex consigliere pannelliano di Alleanza per Torino, "Castellani ha ereditato un deficit di bilancio di 121 miliardi e in due anni l’ha ripianato. Mentre, anche se non lo considero positivo, nel terzo è andato addirittura in avanzo di qualche decina di miliardi". Domenico Carpanini, presidente del Consiglio comunale per il Pds e vicesindaco in pectore se il centrosinistra riuscisse a confermarsi il 27 aprile, ricorda come questo risultato sia arrivato senza un aggravio delle imposte comunali, semplicemente razionalizzando, contenendo le spese e intervenendo sull’evasione fiscale. Sono 2.300 i funzionari comunali in meno rispetto a quando Castellani si è insediato: "La città – dice Carpanini – ci ha guadagnato in efficienza e in qualità dei servizi erogati".
La campagna elettorale, ancora sonnecchiante, non aiuta a capire che cosa abbia rappresentato il quadriennio di Castellani per Torino. C’è da fare i conti con gli slogan elettorali dei contendenti. Se il candidato del Polo, l’ex ministro Costa, accusa Castellani di non aver fatto nulla contro la dilagante immigrazione clandestina, questi risponde di essere il sindaco e non il capo della squadra Mobile; se Costa ribatte che "certo che non lo è, visto che guida il partito degli immobilisti", gli altri rispondono che l’ex ministro ha una visione lepenista e provincialista, in una parola più che una visione una "Mondovi-sione", da Mondovì, Cuneo, paese d’origine di Costa. Non aiuta neanche Furio Colombo, intellettuale e parlamentare di sinistra, che racconta: "Qualche sera fa l’emittente americana Abc ha trasmesso un servizio dedicato al clima di serenità che tutti vorrebbero vivere nel giorno di Pasqua e, mentre sul video incominciavano a scorrere le immagini delle piazze San Carlo, Carignano e Carlo Alberto, lo speaker annunciava: ‘Questi sono i posti in cui vorremmo vivere oggi’". Colombo ha riferito con enfasi l’aneddoto ma solo alla convention di apertura della campagna per il Castellani-bis, nel chiuso del Teatro Carignano. Difficilmente avrebbe ricevuto applausi tra gli abitanti di Porta Palazzo o di San Salvario oppure lungo il parco della Pellerina dove lo spaccio di droga e la prostituzione da un lato sono africani e dall’altro slavi. Non c’è città, al Nord come al Sud del paese, che viva più di Torino il problema dell’immigrazione. Non è solo un tema da campagna elettorale, è un problema vero, reale. Torino è la città, dice Costa, che conta un furto ogni 12 minuti, di auto ogni 49, in casa ogni due ore. E sebbene i torinesi non ci stiano a questa rappresentazione negativa della loro città, resta il fatto che due interi quartieri (San Salvario e Porta Palazzo) sono consegnati alla criminalità extracomunitaria. Tanto che non è un caso che il Consiglio comunale torinese fu il primo ad approvare la mozione antiproibizionista sulla droga presentata da Carmelo Palma (che ora paga quell’iniziativa con la non ricandidatura nelle liste del sindaco). Non perché la maggioranza fosse particolarmente progressista e riformatrice ma perché di fronte alle non soluzioni offerte dai metodi tradizionali si tentò un’altra via. Costa insiste molto su questi temi non temendo di sovrapporsi alle tesi leghiste di Domenico Comino (candidato sindaco) e Mario Borghezio (capolista).
Eppure fu da Castellani, agli inizi del ’95, che partì la richiesta dei sindaci italiani al Parlamento per cambiare la legge sull’immigrazione. Criminalità a parte, la città in questi 4 anni è riuscita a rilanciarsi sul piano dell’immagine internazionale. Non c’è stato solo il Vertice europeo, ma si sono sviluppati progetti Onu ed è cresciuta l’Agenzia per la formazione delle classi dirigenti dei paesi dell’Est e, infine, sono arrivati 106 miliardi di finanziamenti Ue. "Castellani ha fatto in ritardo e malamente quello che aveva realizzato Antonio Bassolino a Napoli con i soldi del G7 – dice Saverio Vertone, intellettuale che conosce bene Torino – ha messo a posto alcune piazze, ha risistemato alcuni giardini e ha demolito le brutture del decennio di Novelli". Ed è proprio sul piano dell’arredo e del traffico urbano, oltre che dell’Assistenza e della trasparenza amministrativa, che la giunta Castellani ha dato il meglio di sé. Per gli avversari è solo un’opera di maquillage che ha completamente escluso le periferie. Il sindaco risponde con il cablaggio della città in corso e l’avvio del processo di privatizzazione dell’azienda energetica e dell’acquedotto (trasformate in spa) e la dismissione delle quote nella Società autostrade. Ma anche con il Piano regolatore (che da tempo giaceva nei cassetti) finalmente adottato nonostante non incontri i favori di tutti per l’eccessiva burocratizzazione delle procedure e perché traccia uno sviluppo cittadino che, pensato molti anni fa, appare ormai inadeguato. Già, perché Torino oggi è a una svolta, non sa più che città sia. "E’ sempre stata monocratica – continua Vertone – prima con la monarchia, poi con la Fiat per l’economia, l’Einaudi per la cultura e la Stampa per l’informazione".

Il Lingotto bipartisan
Ma ora Torino è dimagrita, la popolazione diminuisce, le fabbriche chiudono, le aree dismesse non si contano più, la Juventus addirittura vuole emigrare per l’irrisolto problema dello stadio. Le grandi opere pubbliche sono ferme: del nuovo Palagiustizia non si sa più niente, l’Alta velocità divide le forze di maggioranza, i parcheggi continuano a non farsi e per la sosta delle automobili si utilizzano le splendide piazze ottocentesche. L’amministrazione ha escogitato il sistema dei parcheggi a raso e a pagamento che frutta alle sue casse qualcosa come 40 miliardi l’anno, gestiti dall’azienda dei trasporti pubblici. Della metropolitana (la cui gara d’appalto comincerà a giugno) e del passante ferroviario se ne parla da decenni e sono comunque il frutto dei progetti delle giunte precendenti. "Ma per la prima volta abbiamo i finanziamenti approvati" precisa Carpanini. E pensare che nel 1936, in soli due anni sono stati completamente ricostruiti via Roma e il fatiscente centro storico. Le assunzioni che la Fiat sta facendo grazie agli incentivi sulla rottamazione delle auto non sembrano poter ribaltare una tendenza che appare strutturale: la crisi di un modello di città-azienda, costruita intorno al monopolio Fiat. Ha chiuso Rivalta, quasi metà di Mirafiori, tutte le nuove produzioni sono fuori dall’area torinese. Il gruppo di Agnelli ha con la città ormai un rapporto di "suprema indifferenza". Sia Costa sia Castellani parlano della principale azienda italiana come di un interlocutore necessario per risolvere le urgenze della città. Ma se dal centrodestra accusano Castellani di essersi appiattito su Corso Marconi come mai un sindaco aveva fatto ("Al vertice europeo, il saluto della città l’ha portato Agnelli e non il primo cittadino"), in casa Castellani ricordano che, per esempio, l’appalto per l’acquisto di 50 autobus l’ha vinto un’azienda friulana che produce mezzi con meccanica Mercedes, e non la Fiat. Eppure, insieme, la Regione (governata dal centrodestra) la Provincia e il Comune (centrosinistra) hanno deciso di acquistare da Corso Marconi i 300 mila metri quadrati del Lingotto. C’è chi ha parlato di "socializzazione delle perdite" (il Lingotto lo scorso anno ha perso 7 miliardi) e chi ricorda come la pubblicizzazione sia un processo inverso rispetto alle esigenze privatizzatrici.

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