Camillo di Christian RoccaFRANCESCO SAVERIO BORRELLI

Milano. Francesco Saverio Borrelli, il 22 ottobre 1993 sul Venerdì di Repubblica, di sé ha detto: "Sono un mediocre pianista, un pessimo cavaliere, un pessimo alpinista, un dilettante di professione, ma mi piacciono tante cose che non faccio in tempo ad essere professionista in tutto". Chi è dunque, veramente, il capo della procura di Milano? Un irreprensibile e incorruttibile uomo di diritto che ha condotto da par suo la rivoluzione italiana o un novello Torquemada che "non incarcera la gente per farla parlare, ma la scarcera dopo che ha parlato" o, forse, un piccolo Vishinskij che si domanda "se in fondo sia proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto risultati positivi". Borrelli non poteva che indossare la toga. Figlio e nipote di magistrati ha la vocazione per le aule di giustizia fin da bambino: "Avevo tre o quattro anni, quando dicevo: ‘Voglio fare il magistrato’ ", confidò a Enzo Biagi nel maggio del 1992, poco dopo l’affaire Chiesa. Una carriera che ha radice nell’ambiente familiare: il padre, Manlio, è stato il primo presidente della Corte d’appello di Milano e buon amico di quell’Oscar Luigi Scalfaro cui Francesco Saverio il primo maggio di tre anni fa si mise a disposizione per un "servizio di complemento". Borrelli comincia così a respirare l’aria di Palazzo di giustizia, ma come in questi aspri giorni di polemica contro la classe politica, era solo. Almeno così, lui stesso, ha detto sempre a Biagi: "Non avevo e per lungo tempo non ho avuto amici". Oggi, così come all’inizio della carriera, è tornato ad essere solo. Ha ricevuto, è vero, la solidarietà della sua procura, ma gli osservatori attenti non si sono lasciati sfuggire che essa è stata affidata ad Armando Spataro e Ferdinando Pomarici e non per esempio a Gherardo Colombo o Gerardo D’Ambrosio.
Sembrano finiti i tempi d’oro di Mani pulite, sotto il Palazzo di giustizia di Milano non si convocano più cortei al grido "Borrelli facci sognare", e chi si azzarda a organizzarne ancora qualcuno non raccoglie che poche decine di manifestanti. Le dichiarazioni dello scorso week end rivolte al leader dell’opposizione parlamentare Silvio Berlusconi ("Non posso più polemizzare con un imputato"), hanno lasciato il segno anche tra i suoi colleghi. E una buona dose di nervosismo comincia a serpeggiare. Da una parte c’è il sostituto Edmondo Bruti Liberati che a Repubblica dice: "Saverio ne ha fatta un’altra delle sue. Non c’è un progetto, non ci sono dietrologie da fare. Semplicemente, lui è un timido. Se viene preso all’improvviso, faccia a faccia, il rapporto con i media non lo sa gestire. E’ da un pezzo che voglio regalargli un libretto americano che spiega come deve comportarsi un magistrato di fronte ai microfoni"; e dall’altra c’è Nando Dalla Chiesa che, pur condividendo i timori di un riequilibrio dei rapporti magistratura-politica a favore di quest’ultima, sottolinea che lui quella frase su Berlusconi non l’avrebbe pronunciata. Borrelli, poi, deve incassare gli altolà del Pds ("Non può comportarsi come un macchinista dei Cobas"), i distinguo di Elena Paciotti, presidente dell’Anm. E anche il preannuncio dell’azione disciplinare da parte del Guardasigilli, nonostante Giovanni Maria Flick sia un grande amico del pm milanese con il quale condivide la passione per la cacciagione e la polenta consumate insieme nei ristoranti di Courmayeur.
L’unicità delle carriere ha permesso a Francesco Saverio Borrelli di svolgere agli inizi della sua il ruolo di giudice: prima magistrato civile alla sezione fallimentare e in Corte d’appello, poi penale al Tribunale e in Corte d’assise. In seguito è passato alla pubblica accusa, come sostituto procuratore. Tiziana Maiolo oggi deputato di Forza Italia, allora era cronista giudiziario a Palazzo di giustizia per il Manifesto e lo ricorda come un uomo in grigio: "Era assolutamente incolore, con nessuna visibilità, molto riservato. Una persona, anche cortese, che nelle sue inchieste teneva un profilo basso". Insomma un Borrelli diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere in questi cinque anni. Uomo di sinistra, ma non di stretta osservanza Pci, Borrelli fu tra i fondatori, anche se non di primo piano, di Magistratura democratica, la corrente togata più progressista all’interno del Csm. Anche lì, ricorda chi lo frequentava, stava ai margini e non faceva parte di nessuna delle due anime di Md, non si schierava né con i magistrati più fedeli alla linea del partito comunista né con i garantisti dell’ala extraparlamentare.
L’essere di sinistra non gli impedì di riconoscere innocenti i carabinieri che travolsero e uccisero, a bordo di un blindato, Giovanni Zibecchi, il militante del Movimento studentesco, che a Milano, in corso Ventidue marzo, si apprestava ad assaltare la vicina sede del Movimento sociale. Chi ha seguito la sua carriera fin dall’inizio sostiene che in quell’episodio ci sia il vero Borrelli, la sua cultura giuridica e professionale: praticamente la stessa che ha ispirato gli anni di Mani pulite. La responsabilità dei militari dell’Arma sembrava pressoché certa, ma la strategia di emergenza, sia politica sia giudiziaria, contro il terrorismo suggeriva una certa cautela. E Borrelli stava molto attento quando affrontava certi temi. Il suo approccio di tipo emergenziale negli anni dell’antiterrorismo sembra quasi un’anticipazione, mutatis mutandis, dello svolgimento delle inchieste contro la corruzione. La filosofia, per molti aspetti, è analoga: oggi come allora si deve combattere il fenomeno più che perseguire i singoli reati, e se talvolta si calpestano alcune garanzie non è importante: quello che conta è il risultato finale. L’inchiesta Mani pulite, poi, agli occhi di Borrelli appare in linea con la "volonté générale". Nelle interviste che quotidianamente per cinque anni ha rilasciato ai giornali, Borrelli cita sempre la consonanza sua e del suo ufficio con la società civile e l’opinione pubblica. Il 16 maggio ’93 a dice a Panorama di essere stato "un notaio o esecutore di qualcosa che stava succedendo fuori dal Palazzo di giustizia".

L’inebriante aria dell’Inchiesta
Eppure prima di respirare l’inebriante aria di consenso intorno a Mani pulite, Borrelli era il ritratto del pubblico ministero poco loquace e molto equilibrato. Del suo passato al tribunale fallimentare, un ambiente che secondo alcuni meriterebbe più attenzione, nessuno ricorda grandi battaglie moralizzatrici. L’esatto opposto del pubblico accusatore alla Di Pietro "efficace, diretto, aggressivo e chiassoso", come più tardi lo stesso Borrelli – annota Giancarlo Lehner in "Autobiografia non autorizzata di un inquisitore" – auspica sia il moderno pm. Secondo alcuni, Borrelli avrebbe lasciato Md per ragioni di opportunità. La sponda dei socialisti si sarebbe prestata meglio a un avanzamento di carriera. Alla fine degli anni Ottanta, da sostituto procuratore arriva ad assumere il ruolo di capo della procura di Milano. Ma dal 1988 al 1992, priva di quel sostegno della gente che arriverà poi, la procura non porta avanti fino in fondo nessuna inchiesta importante contro la politica e l’amministrazione pubblica. In un forum pubblicato dal Giornale di Indro Montanelli, Borrelli spiega che non c’era il consenso necessario per aggredire la classe dirigente del paese. Così alcuni filoni, affittopoli e nettezza urbana, vengono abbandonati e non sono affrontati con quello stesso piglio inquisitorio di cui più tardi godrà l’inchiesta Mani pulite. A un certo punto, su iniziativa di Ilda Boccassini, la procura si concentra sulla Duomo connection, un’inchiesta tesa a dimostrare le mani della mafia su Palazzo Marino. Le indagini sfiorano Paolo Pillitteri, ma si risolvono nell’accusa e nella condanna dell’assessore Attilio Schemmari. Dopo il processo Boccassini sbatte la porta e lascia Milano per Palermo.
Poi arriva la stagione delle Mani pulite che Borrelli si trova a gestire grazie all’irruenza di un suo sostituto, Antonio Di Pietro. A poco a poco, capisce che il clima è cambiato e presta la sua fine mente politica al servizio dell’inchiesta e ne diventa lo stratega. Borrelli è consapevole che per andare avanti, almeno in un primo momento, deve trovare una sponda su una parte del mondo politico. Pds e Msi lo appoggiano. E chi come Tiziana Parenti rischia di rompere questo legame indiretto finisce per lasciare il pool. Man mano che l’inchiesta procede, lo scontro con i politici si fa sempre più duro. Quando il ministro della Giustizia Giovanni Conso, il 6 marzo 1993, presenta la proposta di soluzione politica di Tangentopoli, parte il "non expedit" di Borrelli e il decreto viene affossato. Qui nasce il Borrelli interventista e da allora qualsiasi proposta nasca in Via Arenula, con Alfredo Biondi, Filippo Mancuso o Vincenzo Caianiello, è sempre scontro. Il 20 dicembre ’93, pochi mesi prima delle elezioni che avrebbero portato Berlusconi a Palazzo Chigi, Borrelli rilascia una dichiarazione che suona come un messaggio ai partiti che cominciano a prepararsi per la campagna elettorale: "Chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte prima che arriviamo noi, dico io. Quelli che si vogliono candidare, si guardino dentro. Se sono puliti, vadano avanti tranquilli".
Un mese prima delle elezioni viene arrestato il fratello del leader di uno dei due schieramenti, Paolo Berlusconi; a pochi giorni dal voto partono gli ordini di custodia cautelare per sei manager Publitalia, tra cui Marcello Dell’Utri. Ma l’apice viene raggiunto quando Borrelli invia a Berlusconi un preavviso di garanzia a mezzo stampa. Il consenso popolare però non gli manca mai. Il suo vero cruccio è occupare la poltrona di presidente della Corte d’appello quella che fu del padre, perché Borrelli a differenza di altri non è un magistrato che cerca potere fuori dall’ordine giudiziario. Nel marzo del ’94 sembra sul punto di lasciare la procura, ma quando capisce di non avere i titoli adeguati per l’incarico, il 13 aprile, affida a Montanelli la promessa che la sua battaglia contro la corruzione continuerà "Resto in trincea, rinuncio alla Corte d’appello". Il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, commenterà: "Macché rinuncia, a quel ruolo lui non può aspirare. Ce ne sono altri prima di lui e gliel’ho anche spiegato". I tempi eroici ora sono finiti e l’appoggio dell’opinione pubblica non è così acritico come un tempo. E, come se non bastasse, la politica tenta di rialzare la testa dopo anni di sottomissione. "Borrelli ormai è un estremista emarginato – dice Tiziana Maiolo – Elena Paciotti l’ha spodestato nel ruolo politico di interlocutore della Bicamerale". E Maiolo non è l’unica a pensare che le ultime dichiarazioni segnino la fine del Borrelli politico. La Repubblica, solitamente bene informata sul pool, scrive: "Ci si domanda se dietro queste asprezze non ci sia una certa stanchezza, la sua sfiducia nelle prospettive, forse addirittura la ricerca di una uscita di scena in bellezza".

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