Camillo di Christian RoccaQuando le staffette non sunt servanda. Dai cazari a Mazzola da Craxi a Duisenberg

Chissà se Wim Duisenberg conosce la storia dei cazari, il popolo caucasico che verso la metà dell’ottavo secolo decise di convertirsi all’ebraismo. Lo scrittore ungherese Arthur Koestler ricorda una loro usanza, diciamo così, istituzionale: "Il periodo di regno dura 40 anni. Se il re supera questo termine anche di un solo giorno, i suoi sudditi lo uccidono, dicendo che ‘la sua capacità di ragionamento è già diminuita e il suo pensiero confuso’". C’è un’altra versione: "Quando il nuovo capo è stato eletto, i suoi ufficiali lo fanno salire a cavallo. Gli legano un nastro di seta attorno al collo, senza strangolarlo del tutto. Poi rallentano la stretta e gli chiedono con insistenza: ‘per quanti anni potrai essere il nostro khan?’ Il re, con la mente annebbiata, non è in grado di dare una cifra e allora sono i suoi sudditi che decidono sulla base della forza delle parole da lui emesse se il regno sarà lungo o breve".
I capi di governo dell’Ue hanno dunque deciso che l’olandese Duisenberg sarà il presidente della Banca centrale europea solo per 4 anni. A metà mandato dovrà lasciare la poltrona a Jean-Claude Trichet. Un patto tra gentiluomini trovato dalla politica per uscire dall’imbarazzante cul-de-sac in cui Germania e Francia si erano cacciati. Quattro anni a me, quattro anni a te. La staffetta.
Ma a sud delle Alpi si sa che non sempre le staffette sunt servanda. Non sono norme giuridiche, né contratti vincolanti. Ma, in fondo, anche se non vengono rispettate si sopravvive lo stesso. L’Italia lo sa bene. E’ un paese uscito indenne dalla staffetta "mondiale", quella tra Sandro Mazzola e Gianni Rivera. Che cosa volete che sia quella più provincialmente "europea’ escogitata a Bruxelles? Mazzola e Rivera avrebbero dovuto giocare un tempo ciascuno, ma al dunque, cioè nella finale contro il Brasile, l’allenatore non rispettò i patti e fece uscire Mazzola solo a sei minuti dal termine. L’Italia perse e ancora oggi si recrimina.
Nel luglio del 1986, la politica si appropria definitivamente della staffetta. Non era la prima, per la verità. C’era già quella del Quirinale (un presidente dc e poi uno laico) e quella di "legislatura" inaugurata nell’83 per Palazzo Chigi (un premier Psi, poi uno Dc). Il primo governo di Bettino Craxi, quello dei 1058 giorni, cade. Mancano due anni alla scadenza della legislatura e Dc e Psi, le due forze principali della maggioranza, ridiscutono le basi per una nuova alleanza di governo. Craxi va di nuovo a Palazzo Chigi ma stipula con il segretario della Dc, Ciriaco De Mita, quello che è passato alla storia come il patto della staffetta. Gli amanti del genere possono rileggersi i dettagli su "L’accordo di coalizione" di Mario Carducci (Cedam, 1989) oppure su "Accordi di governo" di Piero Alberto Capotosti (Giuffré, 1986). Da Hammamet, Craxi ride di gusto al paragone tra la sua staffetta e quella per la Bce. Ma forse gli viene da ridere perché, ancora oggi, nega: "Quello non fu un vero e proprio patto, anche se lo fecero diventare. A Bruxelles, invece, hanno preso un impegno di fronte al mondo". Impegno o no, a marzo del 1987 Craxi avrebbe dovuto cedere la guida del governo a Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri. Cominciò una stagione di mosse e contromosse tra il segretario Psi e quello Dc (Craxi non voleva lasciare, De Mita lo voleva sostituire) che si concluse con la rottura e le elezioni anticipate. In quel periodo ogni città d’Italia, nel suo piccolo, aveva una staffetta da rispettare. A Roma, la creatività levantina aveva escogitato un complicato sistema di staffette "rovesciate" (il sindaco era Dc) e "incrociate" (tra Comune e Regione). Uno che se ne intende, Paolo Cirino Pomicino, spiega che i patti sono sempre soggetti ad "aggiustamenti sul percorso" e traccia una ‘Teoria generale della staffetta’: "L’esito dipende dalla forza reale che le parti hanno al momento in cui la staffetta deve avvenire". Trichet incroci le dita.