Maria Grazia Cutuli è stata assassinata in Afghanistan, sulla strada che da Jalalabad porta a Kabul, a 90 chilometri dalla capitale in un posto orribile che si chiama Pouli-es-the-Kam. Maria Grazia era lì inviata dal Corriere della Sera e aveva trentanove anni. Era lì, da quelle parti, prima in Pakistan e infine in Afghanistan, dal giorno successivo all’attacco alle Torri Gemelle. Pare sia stata un’esecuzione. Secondo la ricostruzione di una televisione spagnola le hanno sparato alle spalle. Con lei sono stati uccisi altri tre giornalisti. Uno è Julio Fuentes, spagnolo, di El Mundo, di cui Maria Grazia parlava spesso. Erano stati anche fidanzati, Maria Grazia e Julio.
Insieme, domenica, erano entrati in una delle più grandi basi militari di bin Laden, abbandonata dopo la ritirata dei talebani da Jalalabad. Lì hanno trovato una serie di fialette di Sarin, il gas nervino. Ieri il Corriere e il Mundo hanno pubblicato il racconto in prima pagina. C’è chi dice che con la loro inchiesta e con le loro domande abbiano infastidito il leader locale. Si chiama Younis Khalis, una vecchia gloria del Jihad anti sovietico, ed è l’uomo che dopo un lungo negoziato ha costretto i talebani a lasciare Jalalabad. I due giornalisti hanno scritto che Khalis nel 1996 diede a Osama ospitalità e il permesso di costruire la base sui suoi terreni.
Secondo altri si è trattato di un’imboscata a scopo di rapina, in una terra di nessuno tra le più pericolose dell’Afghanistan. Su quelle montagne, a metà strada tra Kabul e Jalalabad, ci sono sia gli arabi di bin Laden sia i talebani scappati dalle due città.
In fondo, conoscere il motivo della strage non conta molto: tutti e quattro i giornalisti sono morti. Questo conta.
L’intrattabile miss Kigali
Dei quattro, Maria Grazia Cutuli è quella che conosciamo meglio. Era di Catania. Il mese scorso aveva compiuto 39 anni. Lavorava alla redazione Esteri del Corriere della Sera. Si occupava di Africa, di Medio Oriente, di Balcani, di Afghanistan. Era la più grande esperta di madrasse, le scuole coraniche del Pakistan dove hanno, si fa per dire, studiato i talebani. Di lei sappiamo che era una donna tosta, tostissima. Sappiamo che era considerata una intrattabile, a tratti insopportabile.
Maria Grazia si lamentava, si lamentava sempre, le sue lamentele erano leggendarie, e gli amici la sfottevano per questo. Non riusciva a restare chiusa in redazione a passare pezzi, come si dice nel nostro gergo, o a fare interviste al telefono. Era monomaniaca: raccontare la guerra, meglio la guerriglia, era la sua fissazione. Voleva sempre andare dove c’era un conflitto. Ci andava, poi. Ci riusciva. Perché era testarda da non immaginarsi. Poi tornava e sfiancava gli amici con i suoi racconti, e non smetteva di raccontare e lamentarsi, perché quando arrivava lì, fosse in Ruanda o in Medio Oriente, improvvisamente e felicemente si fermava tutto. Non si sparava più, si trattava improvvisamente la pace. I suoi colleghi dicevano che era meglio dell’Onu: arrivava lei e la guerra si fermava. Era contenta di questo. Ironizzava su di sé.
A chi la andava a trovare a casa mostrava sempre le sue fotografie scattate in Ruanda – il Ruanda era la sua vera fissazione, ci tornava pure in vacanza. A Kigali arrivò proprio alla fine del genocidio tra hutu e tutsi. Per andarci si dimise da Epoca, dove lavorava; ci andò con un contratto a termine delle Nazioni Unite. Da lì scrisse anche per questo giornale. Era orgogliosa delle sue foto del Ruanda. Gli amici la prendevano in giro perché quelle foto raccontavano un Ruanda diverso da quello terribile della guerra civile. Quelle foto la ritraevano danzante su un magnifico prato all’inglese. Il machete aveva appena cessato di mozzare teste e lei, per scherzo e per esorcizzare la paura, quella sera, su quel prato, fu eletta Miss Kigali.
Fare il giornalista di guerra, si sa, è pericoloso. Le parole contano meno delle armi da fuoco. Chi decide questa vita ne è perfettamente consapevole. Ed è felice. Maria Grazia aveva già rischiato la vita almeno un paio di volte. In Ruanda si salvò grazie a un febbrone che la costrinse a un ricovero all’ospedale di Kigali. La sua abitazione, quella notte fu attaccata e quattro suoi colleghi delle Nazioni Unite furono trucidati. In Sudan, sui monti Nuba, al seguito della guerriglia cristiano-animista evitò per un niente una smitragliata da un Antonov governativo.
I suoi amici erano abituati a questi racconti, non ci facevano più caso. Per coinvolgerli, per fare fino in fondo il suo mestiere, lei raccontava loro queste immani tragedie in modo lieve. Per non annoiarli. Ci riusciva. Come quando andò a Sarajevo per Epoca. La città fu presa d’assedio e lei costretta a dormire per tre settimane nell’edificio della televisione bosniaca. Appena mettevi il naso fuori un cecchino prendeva la mira e sparava. Scrisse articoli bellissimi. A cena, un tocco mondano. Agli amici faceva credere che per lei la cosa peggiore era guardarsi allo specchio i capelli sformi.