Camillo di Christian RoccaIT'S ALL ABOUT ME JOURNALISM. Elogio del giornalismo narcisista e autoreferenziale

Signor direttore – Poi arrivano gli americani e risolvono tutto con una parola, con lo slang. Noi qui a tormentarci, a temere per la nostra presentabilità sociale, talvolta a nasconderci. E, invece, loro dicono "it’s-all-about-me journalism", così, semplicemente, e lo elevano a genere. Che cos’è? Diciamo che è un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose parlando in prima persona e usando se stessi come metafora del mondo. Questa è una definizione benevola, d’accordo. La maggioranza dei giornalisti italiani pensa che sia fuffa, robaccia. E lo sostiene riempiendosi la bocca con i fatti che vanno separati dalle opinioni (non preoccupandosi se poi li separano dalle notizie), appellandosi al giornalismo anglosassone (non avendo dimestichezza con i giornali inglesi o americani), alle "cose serie". Finisse qui. Invece no. La menano anche con le "inchieste vecchio stile" e la solita solfa sul bravo giornalista che deve consumare le suole delle scarpe, altro che stare al telefono e navigare su Internet.
Sarà anche vero, ma nessuno di costoro viene sfiorato dal dubbio che esistano anche cronisti che non riescono a scrivere se gli togliete le Church’s scamosciate. Non sopportano l’esistenza di giornalisti che non si intruppano, che non si iscrivono al sindacato Fnsi; né di opinionisti che pensano con orrorre agli anni della gavetta in cronaca nera. It’s-all-about-me journalism (il giornalismo narcisista) è un genere dequalificato, orribile. In Italia chi scrive in questo modo è reietto, megalomane, uno spostato. Si dovrebbe vergognare. I poveracci, quei pochi resistenti, vengono intruppati nell’orrida categoria del gossip, del cazzeggio, del pissi pissi bao bao, dei sabelli e dei fioretti. Oppure, massimo insulto, vengono paragonati a Diaco (salvo poi che Diaco se lo leggono tutti, mentre gli elzeviri culturali sulle pagine di Repubblica o del Corriere o della Stampa rimangono intonsi. E comunque, Diaco sugli scioperanti del Tasso ha scritto le cose più acute).

Orianna, la capostipite
Il genere, questo genere autoreferenziale, come scrive il New York Times, è stato inventato trenta anni fa dalla più grande inviata di guerra italiana, una che si sporcava le mani. Una che andava lì, vedeva, tastava, consumava le polacchette e poi scriveva. Parlando di sé e prendendo per la collottola il lettore. Oriana Fallaci parlava di sé e faceva capire l’offensiva del Tet; raccontava i suoi amori e spiegava agli italiani la Grecia dei colonnelli. Sulla cronaca pura, lei sputa. Un paio di mesi fa ha sputato su quelli che dopo l’11 settembre hanno gigioneggiato. Se ne parla ancora di quell’articolo, che ieri è uscito riconfenzionato in un libro e nella sua versione integrale oltre che impreziosito da una formidabile prefazione dell’autrice, di pura ambrosia it’s-all-about-me-journalism. Eppure mentre in America su di lei si fanno le tesi di laurea, da noi si dice che la Fallaci è mitomane, che si inventa le cose, che se alla tv del suo albergo sente uno sparo scrive che l’hanno colpita in pieno petto. Vero? Falso? Verosimile? Chissenefrega, l’importante è dire qualcosa. E non annoiare. Anche perché, a essere cinici, i giornali sono già pieni di roba falsa.
Qual è il punto? Questo: che la retorica del giornalismo politicamente corretto travolge chiunque abbia il coraggio di rompere questo schema, chiunque mescoli le regole della fiction con la cronaca. Nel calderone mettono perfino uno come Carlo Rossella, e soltanto perché ama l’elegante cronaca rosa. E dimenticano che Rossella ha diretto il primo tg, il terzo quotidiano e ora il primo settimanale italiano perché è uomo colto, perché ha fatto la gavetta e poi l’inviato di guerra e poi tutto il resto; e che proprio grazie a tutto ciò si permette di alternare scoop internazionali a mondanità. Lo stesso valga per Giampiero Mughini, accusato di parlare troppo di sé, delle insalate mangiate a New York con l’amico Ernesto (Galli della Loggia) e del mutuo di casa sua: ma se volete capire quanto davvero s’ingoia lo Stato del vostro stipendio, lui dovete leggere, mica l’esperto di economia. Della categoria fa parte anche Maria Laura Rodotà, una che si specchia tutte le mattine con Maureen Dowd, la columnist principe del New York Times. E basta sfogliare una rivista americana qualsiasi o leggersi Thomas Friedman o William Safire per accorgersi che le firme americane scrivono in prima persona e partono dal particolare e dal personale per raccontare il mondo (un consiglio: leggete Julie Burchill sul Guardian e Deborah Ross sull’Independent). Questo non è un catalogo degli "it’s all about me journalist", ma almeno un paio d’altri nomi vanno fatti: c’è (da poco) Gianni Riotta, mentre la direttrice di Sette, Maria Luisa Agnese, ne è la madrina.

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