Camillo di Christian RoccaENRICO MENTANA. L'antipolitca nell'informazione

Roma. Se credete che Enrico Mentana, detto Chicco o Macchinetta, sia la lingua più veloce della televisione italiana sappiate che quando è davanti a una telecamera, Enrico si contiene. Non avete idea di che cosa sia parlare con lui direttamente. Espone tre concetti contemporaneamente e tutti e tre in modo compiuto, poi risponde quattro volte al telefono, legge e commenta una notizia d’agenzia su Cesare Previti e infila una decina di battute nel giro di un quarto d’ora. Giochi d’artificio, più che un’intervista. Quello che segue è il resoconto sommario e per forza di cose lacunoso di quanto ha detto tumultuosamente al Foglio.
Intanto non ne può più dei festeggiamenti per suoi dieci anni alla guida del Tg5, o almeno lo fa credere: "Mi sembra un po’ provinciale", dice. Però quando si sfiora la sua "creatura", le si rivolge come a un figlioletto di dieci anni appunto, e confessa: "Quando sono a casa, e guardo la televisione mi commuovo, e penso: l’ho fatto io". Molto berlusconiano. E’ autoironico, ovvio. E infatti dice: "Non sono Pelé, però è impressionante pensare che dieci anni fa siamo partiti con 40 giornalisti e ci prendevano per pazzi. E ora siamo il primo tg ".
Mentana non ha letto "Bias", il libro del giornalista della Cbs di cui parliamo sopra, ma appena gli si racconta il contenuto e gli si parla del successo che ha avuto in libreria, è come se lo avesse scritto lui: "Non c’era bisogno di questo libro per capire che l’establishment politico ed editoriale è quasi mai in sintonia con l’opinione pubblica. Noi abbiamo avuto Oriana Fallaci, ed è un esempio molto significativo di questo fenomeno. Lei ha squarciato il velo dell’ipocrisia e perfino violato la cattedrale del sistema dell’informazione, cioè il Corriere della Sera. Si è messa a gridare l’urlo giusto al momento giusto, e lo ha fatto in questo modo a metà tra la visione profetica e Fantozzi che dice che la Corazzata Potemkin è una boiata pazzesca. La gente si è riconosciuta nel suo articolo perché ha scritto quello che i giornalisti sanno ma non dicono".
Ma se la rabbia fallaciana ha avuto questa eco, vuol dire che l’opinione pubblica voleva questo. E se voleva questo, significa che i giornali e i notiziari televisivi non gliel’hanno servita. E così? "Non è la prima volta che accade – dice Mentana – tutte le volte che ci sono stati gli urli liberatori, sono stati sempre seguiti dall’opinione pubblica. Successe undici anni fa con le picconate di Cossiga, poi con i lumbard di Bossi, con Tangentopoli e nel 1994 con Silvio Berlusconi; è successo anche con Mario Segni, il quale credeva di essere il motore della rivoluzione e invece era soltanto il taxi al quale peraltro non hanno nemmeno pagato la corsa".
E i telegiornali? "Non se ne sono accorti. I tre notiziari Rai ragionavano in termini tripartitici, al Tg1 pensavano alla Dc, al due ai socialisti e al tre ai comunisti. Quello che succedeva davvero nel paese veniva dopo. Si comportavano come se il mondo si specchiasse nell’arco costituzionale". Mentana non lo dice, ma lascia intendere che i telegiornali pubblici sono tuttora vittime di questo pregiudizio: "C’è questa cosa del linguaggio da iniziati della politica e dei continui riferimenti ideologici, ed è una malattia che pervade tutta l’informazione, anche quella scritta. Ecco, gli urli liberatori sono una rivolta anche contro questo modo di dare le notizie".
Come si fa a intercettare questo pubblico tutti i giorni e senza aspettare che l’urlo liberatorio si faccia sentire da solo? "Basta sapere che esiste, che ci sono pulsioni diverse nella società, e che la più forte è quella antipolitica. E poi dargli rappresentanza e informazione. Anche loro ne hanno diritto, anzi senza di loro si perde il contatto con la realtà, diciamo che sono le antenne per trasmettere e per captare. Non tutti la pensano così: c’è chi ritiene politicamente corretto fare informazione retorica sul venticinque aprile e nascondere i sentimenti più egoisti degli italiani".
"Io – dice – ho avuto la fortuna di lavorare in Rai, e lì mi sono reso conto che esistono giornalisti che si appassionano per un congresso democristiano. A quel punto ho intuito che c’era qualcosa che non funzionava. Quando il 13 gennaio 1992 è partito il Tg5 si percepiva chiaramente la decadenza della politica. E sapevo che avrei dovuto guidare un telegiornale antipolitico. Berlusconi lo capisce benissimo che a metà del paese i giochi di Palazzo non interessano, e infatti parla sempre di teatrino della politica, salvo ovviamente quando lo fa anche lui. La sinistra invece continua a rimuovere il problema, fa finta che gli esclusi dal sistema non esistano. E i risultati elettorali si vedono".
Che le è successo quando il Tg5 ha fatto notare che l’euroconvertitore del premier non è ancora arrivato? "La solita cosa, divento un venduto e un pennivendolo e un comunista, ma succede sempre: se faccio una cosa che non piace all’Ulivo mi dànno del fascista. I politici sono così, impazziscono perché non si vedono rappresentati nella veste di Superman". Mentana chiude con un giudizio sulla tv italiana ("è a un livello ingiustificatamente basso"), ma è fiducioso oltre che "minaccioso, scherzoso e realistico". Primo perché dice che rimarrà altri cinque anni alla guida del Tg5 (sarà vero?), e poi perché crede che il fatturato pubblicitario si sposterà sempre di più verso programmi di nicchia, ma a più alto livello di contenuto. Cioè verso le news televisive, anche perché rispetto a uno show o a una fiction hanno costi inferiori. Dategli i soldi, insomma, e Mentana vi farà le trasmissioni di approfondimento come la mitica "60 minutes" americana (ma già adesso guida l’ottimo "Terra"): "Negli Stati Uniti la tv è nata privata e l’informazione è stata da subito uno show come gli altri, ecco perché investono cifre altissime per le news. Da noi la televisione è nata pubblica e l’informazione ha avuto per lungo tempo un taglio pedagogico. La tv commerciale ha rotto lo schema sulla fiction e sugli show, e soltanto alla fine si è occupata di informazione".