C’è un libro che in America è diventato un caso politico e giornalistico oltre che editoriale. Si intitola "Bias" che in italiano è traducibile con "di parte" ed è il racconto di come i mass media manipolino politicamente le notizie. L’autore è Bernard Goldberg, cioè un grande giornalista della Cbs. Goldberg non è di destra, alle presidenziali ha sempre votato per i Democratici, ma ha avuto l’impudenza di dire quello che tutti sanno ma nessuno vuole ammettere, e cioè che i giornalisti cosiddetti imparziali raccontano fatti e riportano notizie con un taglio smaccatamente favorevole alle tesi di sinistra. Lo scrisse per la prima volta in un editoriale ospitato dal Wall Street Journal il 13 febbraio del 1996, da allora per lui sono arrivati un mucchio di guai e l’anno scorso si è dimesso dalla Cbs.
Il libro di Goldberg spiega come funziona questo pregiudizio liberal dentro un grande telegiornale nazionale e fornisce decine di esempi, casi e aneddoti. Attenzione, Goldberg non parla di complotto di sinistra. Esclude che i giornalisti siedano negli angoli bui delle redazioni per pianificare strategie manipolatrici dei notiziari della sera. Non ce n’è bisogno, spiega Goldberg: ai giornalisti viene naturale.
Ma detto questo, il saggio è interessante anche rispetto alla situazione italiana e non soltanto perché anche da noi la maggioranza dei giornalisti è di sinistra, ma per un paio di altre questioni sollevate in questi mesi. "Bias", come "La Rabbia e l’Orgoglio" di Oriana Fallaci, è un libro che ha suscitato reazioni negative, molto negative da parte dell’establishment editoriale (con l’eccezione del Wall Street Journal). E’ stato scritto che la tesi della partigianeria dei network è falsa, e quasi tutte le stroncature avevano un diffuso tono di disprezzo sia per il libro sia per l’autore. Ma nonostante ciò, "Bias" è al primo posto nella classifica dei saggi più venduti curata dal New York Times, e terzo in quella di Amazon, la principale libreria on line. Un successo così clamoroso (come la maltrattata predica fallaciana) che il New York Times s’è dovuto arrampicare sugli specchi per trovare una giustificazione al trionfo editoriale di "Bias". Il quotidiano, peraltro pizzicato spesso da Goldberg nel libro, s’è chiesto che cosa ci trovassero gli americani in un saggio come questo e tra le possibili soluzioni non ha immaginato l’ipotesi che il libro possa essere interessante perché racconta la verità.
E qui il fenomeno si intreccia di nuovo con il caso italiano. Sandro Viola, raffinato editorialista di Repubblica, qualche giorno fa ha scritto un articolo sul suo giornale per raccontare come nel borgo di Cetona, dove vive da anni, regni l’ipocrisia. Il ragionamento di Viola è semplice: la gente che lui frequenta a cena è così ferocemente antiberlusconiana da risultare addirittura noiosa. Poi però Berlusconi vince le elezioni, e se le vince certamente qualcuno tra questi "industriali, architetti, letterati, proprietari di ville cinquecentesche e signore eleganti" che in società storcono il naso, sotto sotto e nel segreto dell’urna al Berlusca il voto glielo dà. Eppure "in queste belle case, dove si danno pranzi squisiti, l’argomento che anima la serata è sempre lo stesso: la sventura d’avere per governo il governo Berlusconi". "L’unanimità è ferrea ", scrive.
Bernie Goldberg risolverebbe il rompicapo di Viola, e molto semplicemente: nessuno dei commensali di Viola mente, l’errore di molti giornalisti italiani e americani è quello di pensare che il mondo reale sia fatto a modello di Manhattan o del borgo di Cetona e delle cene in ville cinquecentesche organizzate da signore in abiti eleganti. Non è così, e neanche di poco.
Anche Natalia Aspesi c’è cascata. In un articolo pubblicato sempre da Repubblica non si capacitava di come gli italiani si fossero messi in coda ai Bancomat per l’euro e del successo di un film come Merry Christmas. Così è andata al cinema per vedere di persona, ma ha trovato soltanto tre persone, altro che folle oceaniche. Nessuno, invece, davanti ai Bancomat. L’esperimento è stato condotto a Venezia e la Aspesi non s’è resa conto che Venezia, al pari di Cetona o del Village di New York, è altra cosa rispetto al mondo reale e magari se avesse fatto due passi verso Mestre lo avrebbe trovato.
E’ uno dei più grandi problemi del giornalismo, questo. Anche in America, scrive Goldberg, ci sono stati articoli di questo tipo, diciamo simili a quello di Viola. Il più famoso lo scrisse una giornalista del New Yorker, Pauline Kael, all’indomani della vittoria presidenziale di Nixon del 1972: "Non ci posso credere, non conosco neanche una persona che abbia votato per lui", disse. La Kael, come Viola, non ne conosceva nemmeno uno e tanto le bastava. Poco le importava, invece, che Nixon in quelle elezioni prevalse su McGovern in 49 Stati su 50. Scrive Goldberg: "Le elite giornalistiche non hanno più alcun contatto con l’americano medio. I loro amici sono di sinistra, e loro stessi lo sono. Condividono gli stessi valori. La pensano allo stesso modo sui grandi temi sociali del nostro tempo: aborto, porto d’armi, femminismo, diritti dei gay, ambiente, scuole confessionali. Dopo un po’ si convincono che tutto il mondo civilizzato la pensa come loro. E non classificano le proprie idee come di sinistra, ma semplicemente come il modo corretto di giudicare le cose. Ecco perché non solo sono in disaccordo con i conservatori, ma li guardano come se fossero moralmente deficienti".
Da noi è lo stesso, e bene hanno fatto Giuliano Zincone, Paolo Mieli e Piero Ostellino a segnalare sul Corriere della Sera il fenomeno degli opinionisti della sinistra italiana che non lesinano toni apocalittici e denigratori quando scrivono di Berlusconi e della sua cricca. Eppure Zincone, Mieli e Ostellino sbagliano per difetto, anzi rischiano di incappare nello stesso errore di Aspesi, Viola e Pauline Kael. Criticano i grandi editorialisti, e cioè i loro pari, ma se avessero scambiato due parole con i capiservizio e i redattori ordinari si sarebbero messi le mani tra i capelli.
18 Gennaio 2002