Camillo di Christian RoccaI DIECI GIORNI DEL CONDOR /3. 13, 14 e 15 settembre

Il Washington Post ha ricostruito i primi dieci giorni di George W. Bush e del suo gabinetto di guerra, le ore successive all’attacco alle Torri. L’inchiesta, scritta da Dan Balz e Bob Woodward, ha uno stile simile a una sceneggiatura di un film. Ecco una sintesi, saccheggiata dal WP, del 13, 14 e 15 settembre.

Poco dopo le 12.30 la limousine presidenziale entra alla Casa Bianca e si ferma non lontano dallo Studio Ovale. George W. Bush torna dal Washington Hospital Center dove ha visitato i feriti e gli ustionati dell’attacco al Pentagono. Non è ancora sceso dalla macchina che gli si avvicina il capo dello Staff, Andrew Card. "Signor Presidente, si segga un attimo, le devo dire una cosa". Card sale in macchina, si siede accanto a Bush e chiude lo sportello della limo. "Abbiamo notizia di un’altra minaccia alla Casa Bianca. E’ una cosa seria". Card spiega che la Cia ha avuto una segnalazione dai servizi pakistani di un attacco diretto alla Casa Bianca. "Perché me lo stai dicendo qui?", dice in modo brusco Bush, irritato che Card si sia preso il rischio di far notare la scena ai giornalisti che stanno lì vicino. "Dovevi aspettare che entrassi nello Studio Ovale", dice ancora Bush, che esce dall’automobile e va verso il suo ufficio. Lì c’è Brian Stafford, il capo della sua sicurezza personale. "Dobbiamo lasciare la Casa Bianca, presidente", dice Stafford. "Non vado da nessuna parte, io rimango qui  dice Bush  A proposito, ho fame". Così Bush che prima dell’11 settembre voleva perdere peso ­ mangiava solo frutta e cibi sani ­ chiama Ferdinand Garcia, lo steward della Marina in servizio nell’ala ovest dell’edificio, e gli dice: "Ferdie, voglio un hamburger". "A questo punto prendi anche del formaggio", scherza Karen Hughes, il suo consigliere.
L’atmosfera torna seria quando entra nella stanza Condoleezza Rice. Condi dice al presidente che sarebbe meglio far evacuare gli impiegati, molti dei quali sono in preda all’ansia da due giorni. Bush decide di mandare a casa, nel pomeriggio, tutti gli impiegati non essenziali. Card dice che il vicepresidente Richard Cheney sarà trasferito per precauzione in un luogo segreto.
La giornata era cominciata con il briefing con la Cia e poi con la riunione del Gabinetto di Guerra nella Situation Room, che si trova al piano sopra dell’ufficio del capo dello Staff, nell’angolo sud occidentale dell’ala ovest della Casa Bianca.
L’uomo chiave è George Tenet, il direttore della Cia che fu nominato da Bill Clinton ma con il quale non legò mai. Clinton aveva cancellato la riunione quotidiana dedicata ai rapporti dell’intelligence. Preferiva una relazione scritta. Bush ha ripristinato il briefing orale, anche perché suo padre, ex presidente ed ex direttore della Cia, lo aveva avvertito: "E’ la cosa più importante della tua giornata da presidente, George".
Alle 9.30 inizia il Gabinetto di guerra. Tenet suggerisce di far agire contemporaneamente i Servizi con azioni coperte, tecnologie sofisticate, squadre paramilitari e le forze d’opposizione al regime Talebano. Ovviamente da affiancare alla forza militare e alle squadre speciali. Si parla dell’Alleanza del Nord, e dell’assassinio del suo leader, Ahmad Massoud, appena due giorni prima l’attacco all’America. Tenet spiega che da tempo la Cia finanzia l’Alleanza del Nord con alcuni milioni dollari l’anno. Prende la parola Cofer Black, il capo dell’antiterrorismo della Cia. Black ha 52 anni ed è una leggenda tra gli agenti dei servizi. Si deve a lui la cattura di Carlos nel 1994. Alto, corpulento e ben vestito, Black comincia a parlare in modo teatrale. Descrive con passione le potenzialità dell’Agenzia, gesticola, si alza continuamente dalla sedia, alza il pugno. A un certo punto sbatte sul pavimento un foglio di carta, per far capire a Bush come andrebbero dispiegate le forze sul campo. "Signor presidente, ci affidi il compito e li butteremo fuori da quelle caverne". E poi, impressionando tutti i membri del gabinetto: "Li lasceremo in pasto agli avvoltoi". In realtà la frase è un’altra, molto più truce: "They’ll have flies on their eyeballs", letteralmente: "Avranno le mosche sulle pupille". Da quel momento, tra gli uomini di Bush, Black diventa "the flies-on-the-eyeballs-guy". E’ una performance memorabile. Era quello che Bush voleva sentire. Il presidente è stanco della retorica di questi giorni, pensa Colin Powell, vorrebbe uccidere qualcuno.
Prima delle 11, Bush interviene televisivamente a una conferenza stampa con Rudy Giuliani e con il governatore George Pataki. Alla fine risponde alle domande dei giornalisti. Ha le lacrime agli occhi. I reporter vengono accompaganti fuori.
Bush riceve i suoi speech writer per iniziare a preparare il discorso per la cerimonia alla Washington National Cathedral, un’idea dello stesso presidente. Entra Michael Gerson. E’ la prima volta che si vedono dall’11 settembre. Gerson aveva lavorato da casa. "Ehi, Mike. Siamo in guerra". Era come se non ci credesse. "Voglio il discorso per questa sera".
All’1.30, Powell chiama il presidente pakistano, Pervez Musharraf: "Da generale a generale, le dico che la vogliamo al nostro fianco in questa battaglia. Gli americani non capirebbero un altro atteggiamento del suo paese". E gli sottopone sette punti militari e diplomatici. Musharraf dice di sì a tutte le richieste di Powell. Mezz’ora dopo il Segretario di Stato riferisce al Consiglio di Sicurezza Nazionale la posizione di Musharraf. Si discute dei possibili effetti negativi che le sanzioni finanziarie potrebbero avere sull’intero sistema internazionale: "Questa è una guerra, non siamo in pace. Dunque, facciamola", dice il presidente.
Nel pomeriggio Bush riceve allo Studio Ovale, la senatrice Hillary Clinton e il senatore Charles Schumer, entrambi di New York. Poi una delegazione parlamentare.
A mezzanotte, Condi Rice torna a casa, nel suo appartamento al Watergate. La prima notte l’aveva passata alla Casa Bianca, al Watergate non sarebbe stata al sicuro. Aveva dormito poche ore, le prime due notti. Ora, a casa, per la prima volta si sente più tranquilla. Accende la tv. Le immagini mostrano il cambio della guardia a Buckingham Palace. Ma è la musica che la colpisce. La Regina in senso di solidarietà e lutto ha fatto suonare l’inno americano. Condi ascolta per qualche secondo, poi comincia a piangere.

La prima riunione del governo
La mattina del 14 settembre si riunisce per la prima volta l’intero governo. Quando entra Bush, si alzano tutti in piedi ad applaudire. Bush è emozionato, gli occhi sono lucidi. Al presidente piace iniziare le riunioni di governo con una preghiera. Powell descrive l’offensiva diplomatica, e dice di aver già parlato con 35 leader mondiali, altri 12 li chiamerà durante la giornata. Bush spiega ai suoi che nonostante la priorità sia la lotta al terrorismo, non si dovranno ignorare le issue di politica interna.
Bush chiama Tony Blair e lo ringrazia per il memorandum che il premier inglese gli ha inviato. Sono cinque pagine di pensieri e suggerimenti sulla crisi e su come condurre la campagna anti terrorismo. Blair sostiene che è molto importante far ripartire il processo di pace in Medio Oriente: servirà a rendere più solida l’adesione degli stati arabi alla coalizione. Bush gli dice che ha già parlato con Abdullah, il principe reggente dell’Arabia Saudita. Più tardi chiamerà Ariel Sharon. Bush gli chiederà di fare qualche passo per ridurre la violenza che minaccia di distruggere ogni speranza di pace in Medio Oriente. Ma Bush non sarà così sicuro che il premier israeliano abbia compreso il senso.
All’ora di pranzo, la colonna di macchine presidenziali lascia la Casa Bianca. Ci vogliono 12 minuti per raggiungere la Cattedrale. Poco prima di salire in macchina, Bush ha provato il discorso e fatto un paio di correzioni. E’ contento del testo che hanno scritto Mike Gerson e Karen Hughes. Sono parole che trasmettono fiducia e risolutezza, senza per questo risultare arroganti.
Gli oratori, oltre a Bush, sono un prete protestante, un rabbino, un cardinale cattolico, un musulmano e il reverendo Billy Graham. Nelle prime file si siedono gli ex presidenti Jim Carter e Bill Clinton, l’ex vicepresidente Al Gore, tutto il governo, quasi tutto il Senato, molti membri del Congresso e Alan Greenspan. Accanto al presidente si siedono suo padre George e sua madre Barbara. All’una, Bush comincia a parlare. E’ un discorso di guerra. A un certo punto dice: "Questo conflitto è cominciato con i termini e le modalità di chi ci ha attaccato, finirà alle nostre condizioni e quando lo decideremo noi".
Bush è quasi pronto. Andrà a New York con l’Air Force One. Dalla War Room del Pentagono chiamano la Casa Bianca per confermare la decisione del presidente di non avere una scorta aerea. Condi Rice e Andrew Card pensano che sia un ordine di Rumsfeld. Così lo chiamano, per saperne di più. Rumsfeld diventa una furia. Com’è possibile  si chiede che qualcuno del Pentagono chiami la Casa Bianca, e il Segretario alla Difesa non ne sappia nulla? La catena di comando evidentemente non funziona. "Non dovrà mai più succedere una cosa del genere", dice Rumsfeld. Si cerca di identificare l’ufficiale che ha chiamato la Casa Bianca. Quindici minuti prima che l’Air Force One decolli, Rumsfeld trasmette il suo ordine. Ci sarà una scorta militare.
grida un altro soccorritore. Bush si ferma un momento, mette il suo braccio intorno alle spalle del vecchio pompiere e grida: "Io vi sento. Il resto del mondo vi sente. E le persone che hanno buttato giù questi edifici ci sentiranno subito". E’ il trionfo di Bush.
Sono le 4.40. Il programma prevede una sosta di 30-45 minuti con le famiglie delle vittime del WTC, al Jacob K. Javits Convention Center. Bush ci rimarrà due ore. Un incontro privato, senza stampa né fotografi. Quando Bush arriva, c’è Hillary Clinton. La senatrice di New York capisce che il presidente vuole restare da solo. Lei lo sa che è così, e se ne va. Ci sono 250 familiari, molti hanno in mano le fotografie dei dispersi. Applaudono il presidente. Poi il silenzio assoluto. Qualcuno gli chiede un autografo. "Quando rivedrete Bill o Jim, gli direte che è davvero la mia firma e che non l’avete falsificata voi. E’ l’unico modo che conosco per aiutarvi, usare questo momento per dirvi che condivido la vostra speranza, e prego con voi perché Jim venga ritrovato". Sono in molti a piangere, Bush ha gli occhi densi di lacrime. Incontra una famiglia dietro l’altra. Incontra Arlene Howard, la madre di George. George era un poliziotto. E’ morto sotto le Torri mentre cercava di salvare altre vite. Non era di servizio quel giorno. L’anziana signora vuole che il presidente si prenda il distintivo di suo figlio. Bush lo porta con sé, la mostrerà alla seduta plenaria del Congresso.
La mattina del 15 settembre Bush si è svegliato a Camp David, in Maryland. Ha parlato alla Nazione via radio e per una decina di minuti risposto alle domande dei giornalisti convocati nella Conference room. Alle 9.30 comincia il Gabinetto di Guerra. Dopo la preghiera prendono la parola Powell e il Segretario al Tesoro, Paul O’Neill. E’ il turno del direttore della Cia. George Tenet ha una valigietta piena di documenti. Uno è intitolato: "Si va in guerra", e sul lato sinistro, in alto, c’è una foto di bin Laden sbarrata e chiusa in un cerchio rosso. Tenet parla per 30 minuti. Alla fine Bush dice: "Ottimo lavoro". Si parla di tutto: dell’Afghanistan, dell’Alleanza del Nord, delle azioni coperte, delle truppe di terra, del Pakistan, del fronte interno eccetera. Solo Rumsfeld cerca di introdurre il tema Iraq. Bush ha qualche riserva, è convinto che se si deve fare qualcosa, la si deve fare bene. Così dice: "Dopo pranzo non parleremo più di Iraq, ci concentreremo sull’Afghanistan". Rumsfeld capisce e riprende a parlare d’altro. A un certo punto però viene interrotto da Paul Wolfowitz, il suo vice al Pentagono. Wolfowitz è un duro e da sempre vorrebbe chiudere i conti con Saddam. L’interruzione riguarda ancora l’Iraq. Cala un silenzio d’imbarazzo e Rumsfeld fa finta di non aver sentito. Bush lancia un’occhiataccia in direzione di Card. Nella pausa, il capo dello staff chiama da parte sia Rumsfeld sia Wolfowitz: "Il presidente si aspetta che parli una sola persona per il ministero della Difesa".
La riunione continua per tutto il pomeriggio, alla fine Bush dice: "Penserò a quello che avete detto e vi farò sapere che cosa ho deciso". Powell e Rumsfeld lasciano Camp David, gli altri rimangono a cena. Ci sono anche le mogli. Dopo cena, Ashcroft si siede al pianoforte e suona le canzoni della tradizione americana, Old Man River, America the Beautiful e God Bless America. Condi Rice è la prima voce, gli altri la accompagnano. Bush è seduto a un tavolo, cerca di mettere insieme i tasselli di un puzzle di legno.
(3. fine)

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