Camillo di Christian RoccaI DIECI GIORNI DEL CONDOR /1. I dieci giorni in cui Bush decise che li avrebbe presi "a calci nel culo"

Il Washington Post ha ricostruito i primi dieci giorni di George W. Bush e del suo gabinetto di guerra, le ore successive all’attacco alle Torri. Otto lunghe e dettagliate puntate, scritte da Dan Balz e dal grande Bob Woodward, quello del Watergate, che raccontano che cosa è successo nei concitati giorni che vanno dall’11 al 20 settembre. L’inchiesta è il frutto di interviste con Bush, Cheney e molti altri membri dello staff. E’ scritta come una sceneggiatura di un film, e racconta come gli eventi abbiano consolidato la leadership di Bush. Ecco una sintesi, saccheggiata dal WP, del primo giorno di crisi.
La mattina dell’11 settembre, Bush si è alzato presto, intorno alle 6.30, e si è fatto una corsa di sei chilometri intorno al campo da golf del Colony Beach and Tennis Resort di Longboat Key, in Florida. Pochi impegni lo aspettavano quella mattina. Soltanto un "soft event" alla scuola elementare Emma E. Booker di Sarasota. La sera precedente aveva cenato con suo fratello Jeb, che è il governatore dello Stato, e con altri repubblicani locali. Era stata una serata rilassante, con le solite cose: risate e politica.
La colonna presidenziale parte alle 8.30. Squillano i cellulari: un aereo ha colpito la Torre nord del WTC. "Il pilota deve aver avuto un attacco cardiaco", dice Bush ad Andrew Card, il capo dello staff.
Dick Cheney e Condoleezza Rice, il vicepresidente e il Consigliere della Sicurezza Nazionale, si trovavano nei loro uffici dell’ala ovest della Casa Bianca. Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa, al Pentagono. Il Segretario di Stato, Colin Powell, era a Lima, in Perù, a pranzo con Alejandro Toledo. Il direttore della Cia, George J. Tenet, stava facendo colazione con l’ex senatore David Boren, al St. Regis Hotel a soli tre isolati dalla Casa Bianca. Il generale Henry H. Shelton, capo di Stato maggiore, era in volo verso l’Europa. John Ashcroft, ministro della Giustizia, a Milwaukee. Il direttore dell’Fbi, Robert Mueller al quartier generale.
Alle 9.05 Card si avvicina a Bush, e gli sussurra che un secondo aereo ha colpito l’altra Torre: "In quel preciso istante – dice Bush – ho capito che eravamo entrati in guerra". Alle 9.30 Powell fa preparare l’aereo per tornare a Washington; Tenet pensa a Osama bin Laden e a Zacarias Moussaoui, il sospetto terrorista arrestato ad agosto in una scuola di volo in Minnesota; Bush compare davanti alle telecamere e dice poche parole: "C’è stato un attacco terroristico. Una tragedia nazionale. Prenderemo chi l’ha commesso". Alle 9.32, agenti dei servizi segreti entrano nell’ufficio di Cheney: "Signore, dobbiamo uscire immediatamente". Un aereo si stava dirigendo verso la Casa Bianca. Prima che Cheney rispondesse, gli agenti lo prendono per le braccia, quasi alzandolo da terra, e lo portano al bunker sotterraneo.
Alle 9.39 il volo American Airlines numero 77 si schianta sul Pentagono. Nel bunker, Cheney stava guardando in tv la colonna di fumo delle Torri. Con lui c’erano la Rice e il Segretario ai Trasporti Norman Y. Mineta. I rapporti dei radar dicevano che il volo 77 dell’America Airlines stava a 50 miglia da Washington. A 30 miglia, a 10 miglia. Poi la notizia dell’esplosione al Pentagono. Mineta alza il telefono e urla alla Federal Aviation Administration di far atterrare tutti gli aerei. In quel momento ce n’erano 4.546 in volo. Il generale Shelton, nel bel mezzo dell’Atlantico, ordina al suo pilota di ritornare a Washington. Ma non ottiene l’autorizzazione.
Rumsfeld sente l’enorme boato, guarda fuori dalla finestra e corre verso la colonna di fumo. Aiuta i soccorritori, poi gli impediscono di rimanere nell’area. "Vado dentro", dice. Si insedia nella war room del Pentagono. I primi caccia si alzano, una scorta viene mandata verso l’Air Force One. Lo stato di allerta è salito fino a Delta, il più alto.
Bush è sull’Air Force One. Un uomo della sicurezza, nervoso, gli dice: "Signor Presidente, abbiamo bisogno che lei si segga il più velocemente possibile". Alle 9.55 l’Air Force One parte. In volo Bush parla con Cheney e Rumsfeld. Mettono a punto le procedure militari da seguire nel caso si imbattessero in un altro aereo dirottato. Prima di abbatterlo, i caccia dovranno tentare di farlo atterrare. In tutti i modi. Con contatti radio e con segnali visivi. Solo a quel punto, il pilota avrà l’autorizzazione ad abbatterlo. Rumsfeld trasmette l’ordine giù per la catena di comando.
A Cheney arriva la notizia che c’è un aereo sospetto a 80 miglia da Washington. "Entriamo in azione?", gli chiedono. "Sì". Ora il Boeing è a 60 miglia. "Dobbiamo entrare in azione, signore?". "Sì". L’aereo si avvicina, e il militare ripete la domanda: "L’ordine vale ancora"? "Ovviamente sì", dice Cheney.
Arriva la notizia che il volo 93 si è schiantato in Pennsylvania. Al Presidential Emergency Operations Center sono convinti che l’aereo sia stato abbattuto dall’ordine di Cheney. Dall’Air Force One, Bush chiede: "Lo abbiamo colpito noi, oppure si è schiantato da solo?". Il Pentagono si è preso due ore prima di confermare che non è stato abbattuto. A bordo c’è stata la rivolta dei passeggeri.
Nella confusione delle prime ore, nel bunker sono arrivate una serie di false notizie: un aereo si è schiantato a Camp David e un altro al confine tra l’Ohio e il Kentucky; un’auto bomba è esplosa al Dipartimento di Stato; un’esplosione al Congresso; incendi vari; un aereo si dirige verso il ranch di Bush a Crawford, in Texas. Alle 9.45 la Casa Bianca è stata evacuata, prima in modo ordinato e poi precipitosamente. Agli uomini dello staff viene consigliato di togliere il pass, per evitare che qualcuno li possa identificare e giustiziare fuori dall’edificio. Nessuno sa dove andare. Anche il Congresso è nel caos. I telefoni cellulari non funzionano.
Nel bunker le condizioni non sono ideali. Ci sono collegamenti con il Pentagono e il Dipartimento di Stato ma non c’è modo di parlare alla tv, il governo non si può mettere in contatto con il paese. Per un po’ non si riesce nemmeno ad alzare il volume del televisore.
Alle 10.32, Cheney chiama Bush e gli dice che risulta una minaccia contro l’Air Force One. "Li troveremo – gli dice Bush – e li prenderemo a calci nel culo". Alle 10.41, Cheney lo richiama e gli dice di non tornare: "C’è ancora una minaccia su Washington". Anche Condoleezza Rice è d’accordo. L’Air Force One atterra a Barksdale, in Louisiana.
Mentre la Rice parla al telefono con Vladimir Putin, Cheney si preoccupa di non dare all’esterno l’immagine di un paese senza guida. E chiede al consigliere della Casa Bianca, Karen Hughes di preparare un comunicato. Ari Fleischer, l’addetto stampa di Bush, aveva già scritto una bozza a bordo dell’Air Force One. Lo legge alla Hughes: "Questa mattina siamo stati vittima". "Ehi, fermati – gli dice la Hughes – non siamo vittima di niente, possiamo essere stati attaccati ma non siamo vittime". Bush parla al telefono con la moglie e di nuovo con Cheney. Alle 12.16 la Faa comunica che nel cielo americano non ci sono più voli commerciali. Venti minuti dopo Bush parla al paese. Un discorso di 219 parole. Bush è provato, ma alla fine dice: "Non faremo errori, supereremo questa prova e lo mostreremo al mondo". All’una e mezzo l’Air Force One atterra in Nebraska, da dove Bush guida una riunione con il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Poco prima, aveva chiamato suo padre, l’ex presidente: "Dove sei, pa’?". "Sono con tua madre a Milwaukee". "Che ci fate a Milwaukee?". "Hai fatto atterrare tu il mio aereo, George".
La riunione comincia alle 3.30. Il direttore della Cia relaziona su Al Qaida. C’è la convinzione che ci possano essere altri attacchi. "State a sentire – dice Bush – l’obiettivo primario di questa amministrazione è catturarli". E poi: "Domani si dovrà riprendere a volare. Dobbiamo rassicurare gli americani".
L’Air Force One parte per Washington. In volo Bush chiama il suo amico Theodore Olson, la cui moglie Barbara, giornalista della Cnn, è morta nell’aereo che si è schiantato sul Pentagono. Bush chiama la Hughes, vuole parlare alla nazione questa sera stessa, dall’Ufficio Ovale. Alle 6.34 arriva a Washington. Il discorso lo ha scritto Michael Gerson, che ha lavorato da casa, istruito dalle parole che Bush ha dettato alla Hughes. Un discorso di sette minuti.
Alle 9 si riunisce il Gabinetto di guerra. C’è anche Powell, arrivato dal Perù. Si parla di Afghanistan, Pakistan e di alleanze internazionali. Nel bunker non c’è neanche una mappa. Ci si aggiorna all’indomani. Alle 11.08, Bush viene svegliato dalla Sicurezza e portato nel bunker. Un falso allarme. Il presidente, in pantaloncini e t-shirt, torna nella sua abitazione per il resto della notte.

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