Camillo di Christian RoccaI DIECI GIORNI DEL CONDOR /2. 12 settembre

Il Washington Post ha ricostruito i primi dieci giorni di George W. Bush e del suo gabinetto di guerra, le ore successive all’attacco alle Torri. L’inchiesta, scritta da Dan Balz e Bob Woodward, ha lo stile della sceneggiatura di un film. Ecco una sintesi, saccheggiata dal WP, del 12 settembre.

Alle 7.30, mezz’ora dopo essere entrato nello Studio Ovale, Bush chiama Blair. Sa che il premier inglese può dargli una mano e qualche buon consiglio su cosa fare. La notte è stata dura, Bush era ansioso di rispondere militarmente il più presto possibile, ma sapeva che per essere efficaci c’è bisogno di tempo. E poi ci sono le diffidenze europee. Ma Blair è diverso, è suo amico, e dopo avergli espresso il suo orrore per l’accaduto, gli offre un "total support" anche in caso di intervento immediato. "Ovviamente ci stiamo pensando", gli dice Bush che non vuole però sprecare missili miliardari per colpire un paio di tende nel deserto. Meglio un’azione che abbia risultati effettivi, piuttosto che una rapida purché sia. I due leader parlano dei passi diplomatici da intraprendere, e del consenso Onu e Nato da conquistare. Bush chiude con Blair e chiama Putin. Parlano per 5 minuti. Il premier russo gli dice che sarà al suo fianco contro il terrorismo; che domani il paese si fermerà in segno di cordoglio; e che ha annullato un’esercitazione militare al largo dell’Alaska. Prima di sera, Bush lo chiamerà ancora e poi parlerà con Chirac, Schroeder, Chretien e Jiang Zemin.
Alle 8, il direttore della Cia, George J. Tenet e il suo staff arrivano alla Casa Bianca per il briefing quotidiano col presidente. Arrivano anche il vicepresidente Dick Cheney e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Condoleezza Rice. Tenet parla di Al Qaida e di bin Laden. Un rapporto da Kandahar dice che gli attacchi erano stati preparati due anni fa. Altri rapporti spiegano che gli obiettivi erano anche il Congresso, e la Casa Bianca. Qualcuno, spiega Tenet, ha fatto circolare la voce che la Casa Bianca era stata distrutta, poi si è corretto. Gli uomini della Cia dimostrano a Bush i collegamenti tra i 19 dirottatori, Al Qaida e i campi d’addestramento in Afghanistan. Game, set, match, dice Tenet.
Dopo l’incontro con i vertici dei servizi Bush chiama il suo fidato consigliere, Karen Hughes. Parlano della visita al Pentagono, prevista per il pomeriggio, e di una dichiarazione da diffondere ai media. Bush dice alla Hughes: "Ti do la cornice, poi fai tu: un nemico senza faccia ha dichiarato guerra agli Stati Uniti. Quindi siamo in guerra". Abbiamo bisogno, le dice, di un piano, di una strategia per preparare gli americani a un altro possibile attacco. Dovranno sapere che d’ora in poi, l’obiettivo principale dell’Amministrazione sarà quello di combattere il terrorismo. La Hughes torna nel suo ufficio per preparare la bozza. Non ha ancora aperto il file sul suo computer che Bush la richiama. Lei torna nello Studio Ovale e Bush le dice: "Lasciami dire come dovrai lavorare oggi, Karen". Le dà due foglietti di carta con tre frasi scritte di pugno. La prima è: "Questo è un nemico che corre e che si nasconde, ma non sarà in grado di nascondersi per sempre". La seconda dice: "Un nemico che pensa che il proprio rifugio sia sicuro, ma non sarà sicuro per sempre". Infine la terza: "Un tipo di nemico al quale non siamo abituati, ma ci adatteremo". Karen Hughes torna al lavoro.
Alle 9.30 Bush convoca il Consiglio di Sicurezza Nazionale e spiega che non permetterà che le minacce terroristiche cambino il modello di vita degli americani. Robert Mueller, direttore dell’Fbi, e il ministro della Giustizia, John Aschroft, battibeccano sulla conduzione delle indagini e sulle procedure. E’ la solita questione: come contemperare la sicurezza dei cittadini con le libertà civili. Ashcroft alza la voce, ma sa che può contare su Bush, il quale poco prima gli aveva detto che l’obiettivo è chiaro, e cioè evitare che si ripeta un attacco.
Colin Powell, segretario di Stato, dice di essere pronto a trasmettere un messaggio presidenziale al Pakistan e ai talebani. Si discute. Bush: "Non è sufficiente chiedere la testa di bin Laden, devono smantellare tutta la rete di Al Qaida". Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa: "E’ importante il modo in cui definiremo fin d’ora gli obiettivi, perché saranno quelli che la coalizione internazionale sottoscriverà. Dobbiamo concentrarci su bin Laden e Al Qaida oppure sul terrorismo più in generale?". Il tono della domanda è retorico. Powell: "L’obiettivo è il terrorismo nel senso più ampio, ma prima di tutto dobbiamo occuparci di chi ha fatto quello che ha fatto ieri". Bush: "Cominciamo con bin Laden, che è quello che gli americani si aspettano. Poi se avremo successo, tireremo un sospiro di sollievo e andremo avanti". Bush chiede: "Donald, dal punto di vista militare che cosa possiamo fare immediatamente?". "Molto poco", risponde Rumsfeld. Bush sa che c’è bisogno di tempo, ma dice che la sua pazienza ha un limite: "Ci dobbiamo muovere, ragazzi".
Alle 10.53, vestito di scuro, camicia azzurra e cravatta a strisce blu, il presidente incontra i giornalisti. "Quelli di ieri sono stati atti guerra". Bush descrive l’insolito nemico e legge il discorso preparato da Karen Hughes. C’è una piccola differenza, poco percettibile nella traduzione in italiano. Bush dice: "Questo è un nemico convinto che il suo rifugio sia sicuro, ma non sarà sicuro per sempre". E per dire rifugio pronuncia la parola "harbor", ma nel foglietto che aveva consegnato alla Hughes aveva usato un altro termine: haven. La Hughes aveva male interpretato la grafia del presidente.
Alle 11.30 Bush incontra i leader del Congresso. Il giorno dell’attacco i Democratici avevano programmato una feroce offensiva contro il piano fiscale del presidente. Da tempo i leader dei due schieramenti si guardano in cagnesco, ma ieri sono stati costretti a passare la notte insieme, in un bunker poco fuori la Capitale. Lo speaker della Camera, il repubblicano Dennis Hastert, chiede a Bush di venire a parlare al Congresso in seduta plenaria. Bush gli dice che lo farà, ma soltanto quando avrà qualcosa da dire. Il leader democratico del Senato, Tom Daschle, dice a Bush di stare attento all’uso della retorica, "guerra è parola molto potente". E gli chiede di considerare il Congresso come partner della crisi.
Alle 12.30 si riunisce il deputies committee. E’ un organo poco conosciuto ma molto potente, composto dai numero due del Dipartimento di Stato, della Difesa, dell’esercito, della Cia e del Consiglio di sicurezza nazionale. Sono riuniti nella Situation room per definire l’obiettivo della guerra. Il gruppo è convinto che "sconfiggere il terrorismo" è formulazione troppo vaga e non realistica. Così stabiliscono che sarebbe più corretto dire che "va eliminato il terrorismo che minaccia il nostro modo di vita".
Alle 4, Bush convoca di nuovo il Consiglio di sicurezza nazionale. Legge la bozza preparata dal deputies committee e dice che non va bene. Il "nostro modo di vita" è troppo poco, sembra che la minaccia riguardi solo noi. Segue discussione, che Bush chiude così: "L’obiettivo è quello di sconfiggere il terrorismo che minaccia il nostro modo di vita e tutte le nazioni che amano la libertà".
Si discute. Rumsfeld dice che se si costruisce una coalizione contro Al Qaida, dopo sarà difficile continuare la lotta contro il terrorismo. Powell ribatte che per ora è più facile guidare il mondo su un obiettivo specifico. Cheney introduce il problema degli Stati che sponsorizzano il terrorismo. Tutti concordano che la coalizione internazionale è essenziale. Ma, se necessario, Bush dice di essere pronto a combattere da solo.
Il presidente lascia la Casa Bianca e va al Pentagono per vedere i danni. Ai vertici militari dice: "Vorrei che fosse già domani, e poter annunciare che stiamo per spazzarli via dalla faccia della Terra". (2.continua)

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