La boxe è una boiata pazzesca. Il ragioniere Ugo Fantozzi, che è saggio, si sarebbe fermato qui, senza sprecare altro tempo ad argomentare il disprezzo totale per uno sport noioso, violento, corrotto e sporco. E’ sufficiente insultarla, la robaccia come questa. Del resto, loro, i pugilatori, mica ricorrono all’arte retorica di Cicerone per comunicare. Ti mollano uno sganascione, piuttosto. Nel loro gergo lo chiamano jab, ma fa danni lo stesso. E sempre che tu sia fortunato, perché se gli prendono i cinque minuti potrebbero a scelta mozzarti un orecchio o stuprare la sorella.
Ora c’è questo film su Mohammed Alì, peraltro interpretato da un attore-cantante alquanto scarso in ambedue le arti, e così pare che il pugilato sia tornato di moda. Illusi. Mettetevi il cuore in pace, la boxe è finita. Non se la fila più nessuno, a parte Rino Tommasi e Gianni Minà. O vi devo ricordare il flop dell’ultimo film con Denzel Washington e la scomparsa definitiva dai palinsesti televisivi?
Ma non è di questo che vorrei parlare. Vorrei parlarvi dell’orribile demi-monde del pugilato e dei suoi disgraziati interpreti. Potrei farlo affidandomi alla teoria marxista sullo sfruttamento dei lavoratori, ma diciamo che sarebbe pallosetto. E allora ve lo dico in un altro modo: i pugili sono come le puttane e i loro manager come i magnaccia. E chi segue la boxe è come quel cliente che cerca lucciole e non lanterne. Nel sesso a pagamento non c’è niente di male, ovvio. Ma almeno nessuno pretende di concionare sulle gloriose e progressive sorti del "mestiere più antico del mondo". Sulla boxe, invece, abbonda la retorica della "nobile arte". Ma quale nobile arte! I pugili sono sfruttati, schiavizzati, trattati come bestie, talvolta drogati come i cavalli delle corse clandestine. Hanno un corpo e glielo fanno usare, a patto che non usino anche il cervello. E questo corpo, come quello delle prostitute, ha un valore fino a quando riesce a sopportare la violenza fisica altrui. E mentre questo corpo incassa le botte e sprizza sangue, mentre si inscena la mattanza, negli scantinati umidi e bui, manager e organizzatori con la faccia poco raccomandabile si spartiscono fifty-fifty i proventi del commercio di carne umana che hanno appena spacciato per gioco sportivo e leale.
Non sono chiacchiere, ma atti parlamentari del Senato americano. Nel 1992 si insediò una commissione d’inchiesta sulla corruzione nel pugilato professionista, e un boxeur (cito dal Manifesto) testimoniò che "a seconda del loro livello, molti pugili sono considerati dagli organizzatori come costate di maiale di prima scelta, altri come cotolette e i meno dotati come carne di scarto, ma raramente sono considerati esseri umani".
Insopportabile è la prosopopea sul riscatto sociale di questi ragazzi, la cui unica alternativa al punch-ball sarebbe il ghetto metropolitano e una vita di droghe e malaffare. E la boxe, farebbe uscire questi poveracci dal ghetto? Sono panzane. Pensateci: che cosa c’è di più ghettizzante di un quadrato delimitato da una corda, dentro il quale devi schivare i pugni di chi è pagato per mandarti al tappeto?
1 Marzo 2002