Camillo di Christian RoccaL'America è feroce coi sospetti terroristi ma li protegge coi suoi diritti

New York. C’è la Francia che protesta, fa la voce grossa contro l’America, e dice che no, la pena di morte contro Zacarias Moussaoui non può essere comminata, sarebbe una violazione degli accordi bilaterali e un atto disumano, ma l’Attorney General, John Ashcroft, insiste che invece sì, la pena capitale contro l’unico imputato dell’11 settembre deve essere richiesta alla giuria e poco importa se Parigi minaccia ritorsioni.
Visti con l’occhio europeo gli americani sembrano feroci e senza cuore, eppure la migliore garanzia per l’imputato Moussaoui sono sempre loro a fornirla, con le loro leggi e i diritti del sospetto che restano inviolabili anche se l’accusa è di aver progettato l’abbattimento delle Torri gemelle. Moussaoui, che era stato arrestato in Minnesota per un problema al suo visto d’ingresso un paio di settimane prima dell’11 settembre, non ha ucciso nessuno, dunque è difficile che venga condannato a morte, ma la Corte federale di Alexandria, in Virginia, non deve porsi alcun limite, è questo il punto dell’Amministrazione, quindi per favore contempli anche l’ipotesi della pena capitale nel caso si dimostrasse che il sospetto ha partecipato all’azione, e voluto provocare una strage. Con John Walker Lindh, il talebano americano, è la stessa cosa. E’ in galera e rischia di non uscirne più. Cercano di imputargli la morte dell’agente della Cia, Johnny Mike Spann, ma non ci sono prove; si dice che Walker abbia saputo delle intenzioni di Osama bin Laden tre mesi prima dell’11 settembre, ma è dura da dimostrare, per cui in linea di principio il talebano d’America potrebbe cavarsela con 8 anni di prigione. Qui si convive con la volontà di colpire i terroristi e la necessità di non violare i diritti dei sospetti; così come per prevenire altri attacchi ci si abituerà alle proteste di chi lamenta limitazioni delle libertà. Lunedì scorso, per esempio, centinaia di musulmani americani hanno manifestato per l’eccessiva durezza con cui sono state perquisite case, negozi e uffici dove lavora gente di religione islamica. "Dall’11 settembre è in atto una forma di persecuzione religiosa nei nostri confronti", dicono le più furiose tra le organizzazioni che difendono i diritti dei sei milioni di musulmani d’America. Sostengono che Washington si sta comportando come già fece durante la Seconda guerra mondiale con gli americani di origine giapponese e con i sospetti amici dei comunisti. "Negare alla gente i diritti civili e poi dopo scusarsi, non è un buon modo di comportarsi", ha detto al New York Times Mara Verheyden-Hilliard, di Civil Justice. Le accuse sono di "racial and religious harassment", per aver messo in carcere 5 mila persone, imposto interrogatori a oltre 3 mila musulmani e per una serie di blitz federali in molte abitazioni della Virginia del Nord, dove vive una grossa comunità islamica. "Condanniamo il terrorismo, ma per noi è terrorismo anche entrare nelle nostre case armati, ammanettarci e perquisirci", hanno detto i leader della protesta di fronte a studenti, uomini in tunica e donne con il capo coperto. Sono americani, gente che è nata qui, che lavora qui e che fino a pochi mesi fa si diceva "orgogliosa di essere americana", ora vedono i loro diritti in pericolo e sostengono che il comportamento del governo eccita i peggiori istinti dei connazionali. Ieri per esempio un uomo ha semidistrutto la moschea di Tallahassee in Florida. Le autorità federali negano di aver abusato, nessuna delle loro perquisizioni è stata condotta su base religiosa o etnica, c’erano sufficienti motivi e sempre l’autorizzazione di un giudice.
Gli americani non sono diventati matti o liberticidi, questo è il paese dove c’è chi dice a voce alta che Walker non è un criminale ma un "vero eroe", e ieri si è scoperto il legame tra un centro studi di Chicago e Al Qaida. Poi c’è la storia di due musulmani americani, della Virginia, che il 13 dicembre hanno viaggiato da New York a Tel Aviv con un biglietto acquistato in contanti, senza bagagli né prenotazione d’albergo. Avevano un passaporto rilasciato tre giorni prima e uno dei due conservava una lettera del fratello che parlava di Jihad, di viaggio verso Allah e di incoraggiamento, dolore, orgoglio e gioia per quello che stava compiendo. Sono stati rimpatriati e messi in cella. La giustizia americana ovviamente ha concesso loro la libertà, dietro pagamento della cauzione.

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