Signor direttore – Sto con Israele, perché chi non ha rispetto per la vita, nemmeno per la propria, va combattuto. Sennò che viviamo a fare? Se non fossi qui dove sto benissimo, lunedì sarei a Roma a manifestare per Israele, e se Ariel Sharon non avesse reagito come infine ha giustamente reagito sarei il primo a protestare contro la sua politica. Per capirci, sto a destra di Andrea Marcenaro. Credo cioè che Sharon abbia perso tempo a rispondere al terrore scatenato da Arafat, un attacco che in rapporto alla popolazione israeliana equivale a sei Twin Towers, a 20 mila morti americani. E noi qui a disquisire se il porco è Sharon, e a preoccuparci per il ruolo di un dittatore in divisa che tiene in scacco il mondo e il suo popolo dal 1972.
Se avevo qualche dubbio, m’è svanito mercoledì pomeriggio. Sono andato a Washington, all’American Enterprise Institute, c’era un incontro ristretto con Benjamin Netanyahu, ex premier di Gerusalemme e oggi di nuovo il politico più amato d’Israele. Ascoltare Netanyahu e sentire le domande che gli hanno posto gli analisti americani mi ha fatto capire molte cose. Una su tutte: questi, signor direttore, non si fermano. Con Arafat è finita. Così come con il terrorismo globale. Non importa quanto tempo ci vorrà, si fermeranno quando "il bene prevarrà sul male". Sembra un film americano ma ho imparato che i film americani in America non sono fiction, sono la realtà. Il male nazista l’hanno sconfitto, e non al cinematografo. Il male comunista l’hanno stritolato con una Guerra Fredda, che non è un’espressione giornalistica come sembra a noi. Loro l’hanno combattuta davvero la Guerra Fredda, e per quarant’anni. Per quale diavolo di motivo si dovrebbero fermare di fronte a chi pratica il terrore?
Non basta fermare i kamikaze, non serve un accordo con Arafat. Si devono abbattere i regimi che creano e finanziano il terrore, e punto. Bush, che a noi europei sembra sempliciotto, perché noi siamo sofisticati e intellettuali e lui è texano, è perentorio quando parla di guerra al terrorismo, e se qualcuno gli chiede chiarimenti, lui dice: "I mean what I say and I say what I mean", intendo cosa dico e dico che cosa intendo.
Arafat se ne deve andare, "he gotta go", e se ne andrà, "he will go", ha detto Netanyahu. Non c’è più spazio per accordi con chi non ne ha mai rispettato uno, e alle chance di Powell non ci crede nessuno. "We have to finish the job", ha detto Netanyahu, dobbiamo finire il lavoro di smantellamento della rete terroristica. E su questo in Israele sono d’accordo tutti, Sharon, destra e sinistra. "Just do it", come lo spot della Nike, bisogna farlo e basta. Lo hanno già fatto 21 anni fa con l’Iraq, quando Saddam stava ultimando la bomba atomica. Gli israeliani sono andati e bum bum. Senza copertura internazionale, né coalizione antiterrorismo, né niente. E se l’Iraq non ha ancora la Bomba, dobbiamo ringraziare Israele.
Netanyahu ha spiegato che a Sharon servono due settimane per chiudere la partita col terrorismo palestinese. E’ più facile di quanto possa sembrare, dice. Anche se il rischio di perdite israeliane è alto, visto che usano truppe di terra e prima di intervenire lo preannunciano col megafono. Non sarà bellissimo, come ha scritto Adriano Sofri, ma certo non è un comportamento da porci-fascisti-guerrafondai, visto che potrebbero bombardare con gli aerei come abbiamo fatto noi in Iraq, in Serbia e in Afghanistan senza avvertire nessuno. Una volta distrutta la rete terroristica, l’idea israeliana è quella di una separazione fisica, per impedire che entrino i kamikaze. Netanyahu ha detto che bastano diecimila uomini. A Gaza c’è già un muro, e da lì attentatori non ne arrivano. Il terzo passaggio è quello più importante. Gli Stati Uniti, ha chiesto Netanyahu, devono imporre un processo democratico in Palestina, introdurre elementi di pluralismo, di diritto, di rispetto della vita così come hanno fatto in Germania e in Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Operazione Planting Freedom, l’ha chiamata Netanyahu. Ovvio che una democrazia non si possa impiantare da un giorno all’altro, ma ci sono anche vie intermedie e gradualiste, e la Turchia ne è un esempio.
Alla fine dell’incontro Bob Woodward, quel Bob Woodward del Washington Post, ha chiesto a Netanyahu cosa pensasse di un’Europa che è anti israeliana e anti americana. Bibi prima ha detto che è vergognoso per chi 60 anni fa massacrò 6 milioni di ebrei, criticare oggi Israele e solo perché si difende. Ma ha anche aggiunto che l’Europa è vittima di un suo stesso errore, cioè di essere stata colonialista e di sapere quali dànni provoca quell’esperienza. Ecco, ha detto Bibi, l’Europa quando guarda a Israele e agli Stati Uniti pensa che siano colonizzatori, ma non si rende conto che né l’uno né l’altro conquistano paesi. Israele e l’America, piuttosto, costruiscono paesi, fondano nazioni, difendono la democrazia. Winston Churchill diceva che gli arabi dovranno ringraziare gli ebrei per sempre, perché hanno costruito dal nulla un paese aperto anche a loro. E infatti ora ci sono, mentre quando ci andò Mark Twain, 13 anni prima dell’arrivo dei primi ebrei del secolo scorso, quella terra era "wasteland", deserto, non c’era un’anima viva. E’ questa la cosa che davvero unisce Israele e Stati Uniti, altro che la lobby ebraica. E’ il mito della Terra Promessa che la Bibbia voleva sulle rive del Giordano e che la storia ha trasportato Oltreoceano. L’America cos’altro è se non la "nuova Gerusalemme"?.
12 Aprile 2002