Un manifesto per la cultura non serve a niente. Di più: il concetto di cultura è una boiata pazzesca. E’ una espressione polverosa, vecchia, obsoleta, noiosa, fa venire l’orticaria. Il testo redatto da Marcello Dell’Utri vuole liberare la cultura dalla politica; ma forse è meglio che la politica, cioè tutti noi, ci liberiamo dalla cultura. Basta, fine, punto e a capo. Secondo Dell’Utri "il futuro del nostro paese è legato a un patrimonio di cultura, di civiltà, di monumenti, di paesaggi, di ambienti che non hanno equivalenti nel mondo e che tutti ci invidiano". Ottimo, se solo fosse stato scritto per la rivista dell’azienda provinciale del Turismo. "Fenomeni allarmanti di disagio sociale continua il Manifesto dellutriano diffusi specialmente fra le nuove generazioni, si annidano e si propagano dalle città e dalle metropoli devastate dalla bruttezza e dal degrado". Scusi senatore Dell’Utri, ma la bruttezza e il degrado delle nostre città a chi lo dobbiamo se non alle idee dei grandi urbanisti? Quegli uomini di cultura che hanno imposto alla politica e quindi ai cittadini i piani regolatori, le proibizioni e le pastoie burocratiche. Facile prendersela con i geometri e le villette abusive. Quella è stata l’Italia che si è ribellata alla negazione del diritto di proprietà privata. E l’ha fatto in modo partigiano, nottetempo. Voi, a casa loro, glielo avete impedito in nome della scienza e dell’arte, e quelli hanno tirato su pilastri clandestini e solette antifasciste.
Sto divagando? Per niente. Imporre alla politica, al governo addirittura, di occuparsi di cultura è una iattura. Alla larga, please. Finirete con il rincorrere i fighettismi francesi e le loro eccezioni culturali. Oppure, peggio (specie nell’ottica dellutriana), con lo scimmiottare l’egemonia gramsciana (senza Gramsci, peraltro). Occupatevi d’altro, per favore. Sburocratizzate il paese, riformate il mercato del lavoro, mettete a posto i tombini. Volete aiutare la cultura? Ok, lasciate in pace Raffaello, abbassate le tasse e defiscalizzate le donazioni benefiche. Dite che c’è da riacquistare "il secolare ruolo della ricerca scientifica, perché un paese che non è all’avanguardia nelle frontiere della conoscenza non potrà mai essere un paese prospero"? D’accordo, ma dimenticate il genio di Leonardo da Vinci e impiegate la golden share Telecom per dare collegamenti internet veloci e gratuiti a tutti. I Manifesti e i convegni, le chiacchiere e i distintivi, servono a niente se un ragazzo di Detroit (o di Bombay) può accedere alla rete e scaricarsi le informazioni in pochi secondi, mentre uno di Padova deve appellarsi a Sant’Antonio.
Il paradosso dellutriano
Altra cosa. C’è un paradosso nel Manifesto dellutriano. Sono citati i padri nobili della letteratura italiana, della pittura, della scultura, dell’arte e della scienza del nostro paese. Ma si ferma lì, alla frontiera di Chiasso. Il paradosso è che Marcello Dell’Utri è uno dei padri della televisione privata italiana ed europea, uno degli artefici (grazie al cielo) della globalizzazione della nostra società. Ammetterete che la prospettiva è cambiata. Che senso ha, infatti, parlare ancora di cultura italiana o europea o americana se di qua e di là dell’Atlantico si leggono gli stessi libri, si visitano le stesse mostre, si sente la stessa musica, si guardano gli stessi film, si ascoltano le stesse notizie? Per quale motivo un ministero della Cultura della Repubblica dovrebbe promuovere un film di Silvio Soldini, un libro di Alessandro Baricco o un rap di Jovanotti discriminando Schwarzenegger, Saul Bellow o i Radiohead? Secondo quale principio Umberto Eco mi dovrebbe appartenere più di Philip Roth? La lingua, dirà qualcuno. La lingua, effettivamente, è una barriera. Ma quando si è ragazzi non si fa nessuna fatica a imparare i testi delle canzoni, e non sarebbe male se all’improvviso si vietasse il doppiaggio dei film. Finirebbe la nenia su quanto sono meravigliose le scuole dei paesi nordici, da dove esci con un inglese oxoniano. Balle, nel Nord Europa impari l’inglese perché i film, i cartoni animati e le serie tv sono in lingua originale. Ecco, questo sarebbe un bel manifesto culturale. Più inglese per tutti (anche più italiano, però). Le barriere non hanno più senso, così come l’autarchia culturale. Paul O’Neill, il ministro americano del Tesoro, nel condurre la campagna per ridurre il debito dei paesi poveri non s’è scelto un testimonial nato nel Wyoming, ma Bono degli U2, che è irlandese di Dublino.
C’è poi la sacralità della cultura, che fa ancora più male della politica culturale di Stato. E’ una cosa comune sia a destra sia a sinistra, che viene fuori sia dal Manifesto sia dalle critiche di Giovanna Melandri a una delle poche cose intelligenti fatte negli ultimi anni, cioè l’aver affidato a Carlo Rambaldi, il papà di E.T, il museo virtuale sulla Patria. L’ex ministro grida all’orrore perché quel museo le sembra Disneyland. Oh signora mia. La cultura, parbleu, sia seria, accademica; deve essere autopunitiva, farci due palle così.
Non chiedo né di abdicare né di consegnarci mani e piedi agli yankee per manifesta inferiorità di produzione culturale. Sarebbe troppo (bello). Vorrei soltanto che non continuassimo a farci del male, ricordando ogni tre minuti quanto eravamo intelligenti cinquecento anni fa.