Camillo di Christian RoccaHeathen, David Bowie

A voler essere cattivi si potrebbe cominciare dalle parole. E dire: un disco che inizia con la frase <For in truth, it’s the beginning of nothing>, <per la verità, questo è l’inizio di niente>, non promette bene.
I testi di Heathen, cioè del nuovo disco di David Bowie, confermano la premessa, e certo non si potrà accusare Bowie di non aver avvertito. Almeno lui è stato onesto, e la cosa non è frequente. Il punto è che i testi scritti dai big del rock sono spesso delle boiate pazzesche. Soltanto noi italiani, sempre fortunelli, non ce ne accorgiamo, e questo perché non parliamo una parola d’inglese. Non capiamo un cavolo quando lui, Bowie, e i suoi colleghi del rock cantano le loro strofe. Meno male. Se sapessimo le lingue cadrebbero molti miti, e non sarebbe bello (specie dopo che abbiamo assistito increduli all’inadeguatezza di Pupone Totti al di fuori del Grande Raccordo Anulare). Heathen è un disco bello se si ascolta soltanto la musica e comico se si fa caso anche alle parole.
Mettiamola così. Se canta David Bowie, uno dei mostri sacri, l’ascoltatore si immagina, anzi pretende, che i testi siano densi, colti, poetici. Belli, insomma. All’altezza del personaggio. Non importa che dicano qualcosa. Anzi forse è meglio non dicano niente, che non siano "impegnati". David Bowie, tra l’altro, <Heroes> a parte, è uno dei cantautori meno politicizzati del rock. I testi delle sue canzoni migliori, quelle degli anni Settanta, sono folli, fantastici e visionari. Scombinati, diciamo. E proprio per questo piacevano.
Ora invece Bowie canta: <Tutti dicono ciao>. In inglese farà anche più fico, <Everyone says Hi>, ma sempre <tutti dicono ciao> resta. Ma noi, se cantato in lingua straniera, non ce ne accorgiamo. Ci concentriamo sulla musica, e del testo ce ne freghiamo. Non è detto che sia un errore, peraltro. Però con i cantanti italiani facciamo il contrario. Se Claudio Baglioni canta "passerotto non andare via", l’onta giustamente gli rimane attaccata tutta la vita e poco importa se la musica che accompagna quell’orrore non è niente male. Succede anche l’inverso, ovviamente. I cantautori italiani degli anni Settanta, per esempio, cantavano le parole dell’impegno politico, e per questo erano osannati, ma si scordavano di aggiungere la musica a quei volantini, e per questo sono stati dimenticati.
Tornando a Bowie, e al suo Heathen, tutti i critici gridano al capolavoro, nonostante queste banalità: <Non stare in un posto triste/ dove non si preoccupano di sapere come stai/ Tutti dicono ciao/ Se i soldi ti finiscono/puoi sempre tornare a casa>. D’accordo, anche i Rem hanno scoperto il disimpegno con il loro ultimo disco, ma un testo così neanche Pupo avrebbe il coraggio di cantarlo. Leggete qui: <Sarò felice di ricevere una lettera/mi piace sapere che cosa succede/spero che il tempo sia buono e non faccia troppo caldo>. Il riferimento ai Rem non è fatto a caso, <Everyone says Hi> sembra proprio una loro canzone.
Heathen è pieno di belle canzoni con testi imbarazzanti. C’è la banalotta storia di uno che grida <Voglio essere il tuo schiavo> e quella di Bowie medesimo che chiede: <Dài ai miei figli sorrisi solari/Dagli cieli caldi e tersi/Io chiedo un futuro migliore/O dovrei smettere di amarti/dovrei proprio smettere di amarti>. C’è anche qualche testo decente, come quello di <Slow Burn>, <Chi siamo noi/così piccoli di questi tempi> e qualche buona trovata come in <5:15 The Angels have gone>, forse la più bella canzone del disco. Qui Bowie si trova alla stazione e riflette sulla fine di un amore mentre cerca biglietto, orario e binario giusto. Ogni due versi ripete <5:15>, five-fifteen, l’orario del treno che avrebbe dovuto prendere. Chissà se ce la farà. Poi c’è la strepitosa cover di <I’ve been waiting for you> di Neil Young, e da sola vale il prezzo del disco.
I critici dicono che questo è un Bowie nuovo, diverso, finalmente tranquillo e in pace con se stesso. Balle, lo dicono sempre. Fateci caso. Tutte le volte che un grande vecchio del rock pubblica un nuovo disco c’è sempre una scoperta della paternità o del valore della famiglia o cose del genere che fanno del disco il migliore da venti anni a questa parte. E’ marketing, e basta. Questo disco di Bowie, restando alla musica, non è diverso dai precedenti. Le canzoni più belle del disco non sono molto lontane da quelle del suo terz’ultimo album, l’ingiustamente sottovalutato <Outside>, e il produttore è il medesimo di venti anni fa, Tony Visconti. Che niente sia cambiato, musicalmente, lo dice lo stesso Bowie, nella prima canzone, <Sunday>, una canzone dai toni gattopardeschi: <And nothing has changed/Everything has changed>, <niente è cambiato/tutto è cambiato>.
David Bowie non hai mai venduto frotte di dischi, ma ha influenzato decine di gruppi e cantanti. Una sola volta ha scalato le classifiche, negli anni Ottanta. Quando ha lasciato i travestimenti che lo avevano reso famoso e si è dato al pop leggero, con Let’s Dance, China Girl e Absolute Beginners. Da un bel po’ di tempo compone belle musiche psichedeliche, anche se non più fondamentali per la storia del rock come un tempo. Tanto basta, e ora <tutti dicono ciao>, David. Bentornato.
Christian Rocca

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