Sono cinque o sei, non di più. E Martin Amis è uno di questi. Gli altri sono Philip Roth, Saul Bellow, Don De Lillo, Salman Rushdie e Ian McEwan. Sono romanzieri di successo, i migliori. Quando in America o in Inghilterra esce un loro libro, le pagine culturali dei giornali italiani giustamente si genuflettono. E senza aspettare la traduzione nella nostra lingua, i medesimi giornali, compreso il nostro, raccontano con mille particolari il nuovo volume e ciò che l’autore rappresenta per il suo paese, per la letteratura e per il mondo intero. E’ la regola. Che ha un’eccezione. Questa: il nuovo libro di Martin Amis su Stalin, sull’olocausto perpetrato dai comunisti e sull’indulgenza degli intellettuali europei nei confronti di un’ideologia che ha prodotto crimini, orrori e miserie.
Il libro si intitola "Koba the Dread. Laughter and the Twenty Million" ed è edito dalla Talk/Miramax, che non è una casa editrice di reazionari di destra ma il gruppo che ha prodotto, tra gli altri, "La vita è bella" di Roberto Benigni. "Koba" è il nomignolo che lo stesso Stalin si diede, mentre "The dread" significa "Il terribile". I venti milioni del sottotitolo sono ovviamente i morti a lui direttamente attribuibili (per difetto, in verità) e "laughter" sta per "risata". La risata con cui gli ex comunisti di oggi, spiega Martin Amis, accompagnano il ricordo cameratesco della propria appartenenza al Partito. Amis è uno di sinistra, si direbbe da noi. Scrive sul Guardian, che è la bibbia del leftism anglosassone, e i suoi libri non sono mai stati criticati per mancanza di "sincerità democratica".
Amis è figlio di Kingsley Amis, romanziere anch’egli e membro del Partito comunista britannico negli anni della giovinezza. Amis papà, negli anni 60, diventò anticomunista, e non gli fu mai perdonato. Specie la sua amicizia con Robert Conquest, lo storico che nel 1968 mentre l’Europa si ubriacava di ideologie totalitarie scrisse "Il Grande Terrore", il più completo e dettagliato atto d’accusa sullo stalinismo. Lo presero per pazzo, ovviamente. Ma Conquest aveva ragione, tanto che quando nel 1990 gli ripubblicarono il testo e gli chiesero se voleva dargli un nuovo titolo, lui rispose di sì, chiamatelo "Ve lo avevo detto, brutti scemi".
Martin Amis non è uno storico, la sua analisi dello stalinismo si concentra sulla figura di suo padre e su quella di uno dei suoi migliori amici, il giornalista e saggista Christopher Hitchens. E’ un percorso personale attraverso gli orrori del comunismo, raccontati in tutta la loro crudeltà, bambini mangiati compresi. Come è possibile, si chiede Martin Amis, che un uomo come suo padre per 15 anni possa aver creduto a tali fandonie. La tesi che in Occidente non si sapeva, secondo Amis, non regge. E’ vero che prima del XX° Congresso del Partito Comunista Sovietico (1956) la carneficina non era ufficiale. Ma c’erano decine di libri che raccontavano i massacri, e i patti tra Stalin e Hitler per dividersi il mondo non erano segreti. E in particolare il patto nazi-sovietico dell’agosto 1939, la divisione nazi-sovietica della Polonia e il successivo trattato d’amicizia e sui confini del 1939. L’annessione dell’Ucraina e della Bielorussia e della Finlandia (per cui l’Urss fu cacciata dalla Lega delle Nazioni) nel novembre 1939. E l’annessione della Moldavia, e dei paesi baltici nell’anno successivo.
Nel 1968 si sapeva già tutto, eppure ci fu il Sessantotto e poi il terrorismo rosso degli anni Settanta. Il suo amico Hitchens, in parte ci crede ancora. Oggi nessuno si dice più estimatore di Stalin, però c’è chi, come Hitchens, sostiene che Lenin resta un grande uomo. Amis ricorda che lo stato di polizia fu ideato e realizzato da Lenin (Stalin non fece altro che usare quell’impianto) e che la violenza era parte fondante della sua dottrina politica. Stato di polizia, violenze, terrore; eppure oggi essere stati comunisti non desta la stessa indignazione che si prova nei confronti di chi è stato nazi-fascista. Qual è la ragione per la quale essere stati comunisti costituisce un di più, una cosa di cui essere fieri nonostante l’assassinio di venti milioni di persone (e la miseria per i superstiti)? Amis se lo chiede, e in realtà non si dà risposte definitive. La spiegazione che i comunisti, al contrario di Hitler, inseguivano ideali di giustizia ed equità sociale non sta in piedi, equivarrebbe a dire che massacravano per il bene delle stesse vittime. E poi a ben vedere non è neanche vero. Non è solo una questione di numeri (che comunque contano). Nella Germania nazista deportavano e uccidevano ebrei, zingari e omosessuali. La società civile e la classe operaia non furono perseguitate. In Unione Sovietica nessuno si poteva considerare al sicuro: i kulaki, gli ucraini, i contadini, gli operai, gli stessi vertici del partito. La società civile è stata annientata. Amis cita la poetessa Anna Akhmatova, che diceva: "Qui arrestano la gente per niente". Gli stessi autori del censimento sovietico nel 1937 furono uccisi da Stalin, perché gli consegnarono i dati della popolazione fermi a 163 milioni mentre Koba se ne aspettava almeno 170. I 7 milioni mancanti li aveva fatti uccidere lui.
Eppure se qualcuno sostiene che la carestia non fu provocata da Stalin "ma purtroppo queste cose capitano", non scattano gli stessi girotondi pronti se Le Pen dice che "L’Olocausto è stato un dettaglio della storia" o se Haider loda le politiche sul lavoro della Germania nazista.
"Koba the Dread" non è rivolto ai politici ex comunisti. In giro per l’Europa la sinistra ha già fatto i conti con il proprio passato. In Inghilterra c’è Blair, in Francia c’è stato Mitterrand, in Germania sono passati attraverso il congresso di Bad Godesberg. Non è rivolto neanche ai politici italiani, ovviamente. Eppure ce ne sarebbe, in un paese dove la classe dirigente della sinistra rivendica di essere stata comunista (D’Alema) o fa finta di niente (Violante) o dice di essere sempre stata filoamericana (Veltroni) o addirittura di essersi iscritta al Pci in quanto anticomunista (Fassino). A Martin Amis non interessa neanche fare le graduatorie su quale delle due dittature è stata la più sanguinaria, e sarebbe comunque un passo avanti visto che fino a poco tempo fa si discuteva se era meglio la Russia o l’America e oggi invece se ha commesso più crimini il comunismo o il nazismo. Amis parla alla classe intellettuale che ride e scherza e si dà arie sulla moralità e sulla diversità e sulla superiorità genetica che gli conferisce il passato comunista. Il risultato è che, questa volta, i capiservizio delle pagine culturali italiane, sul libro di Amis non hanno scritto una riga.
7 Agosto 2002