Milano. "L’uomo dietro bin Laden". Il titolo del New Yorker, settimanale della sinistra liberal e snob, annuncia una straordinaria inchiesta di Lawrence Wright su Ayman al-Zawahiri, il "numero 2" del terrorismo islamico. Se Osama è il volto pubblico che ha firmato l’attacco all’America, Zawahiri è la persona che ha costruito la forza militare di Al Qaida. Osama aveva i soldi e molti seguaci, ma non era organizzato. E’ stato questo il compito di Zawahiri, il quale ha anche smussato certe ingenuità del pensiero e dell’azione politica di bin Laden.
Lo abbiamo visto in televisione, nelle famigerate videocassette inviate ad al-Jazeera. Zawahiri è l’uomo barbuto e con l’occhiali che siede accanto a Osama. Zawahiri è un chirurgo egiziano, appartenente alla buona società del Cairo. Fin da ragazzino si interessò all’Islam militante, finì anche in carcere, dove fu torturato perché sospettato di aver fatto parte del complotto che uccise il presidente egiziano Anwar Sadat. Diventò un combattente del Jihad in Afghanistan, dove si oppose ai sovietici e saldò l’amicizia con bin Laden. Nel 2001 il suo gruppo, "Jihad islamico", si è unito ad Al Qaida, ma fin dal 1993, Zawahiri ha partecipato, e in primo piano, alle operazioni militari contro i soldati americani in Somalia, agli attacchi alle ambasciate americane in Africa (1998) e alla nave Us. Cole in Yemen (2000) e infine agli attacchi dell’11 settembre contro New York e il Pentagono.
Quella che segue è la sua storia, così come la racconta il giornalista del New Yorker e, come si vedrà, profondamente intrecciata con le vicende politiche egiziane.
Né degrado né sofferenza, vita agiata
Zawahiri è un chirurgo, erede di due delle più importanti famiglie egiziane. Dalla parte di padre si contano dottori, ingegneri, professori universitari, farmacisti, un ambasciatore, un giudice, un parlamentare. Ma il nome Zawahiri è associato alla religione. Uno zio di suo padre è stato il Grande Imam di Al-Azhar, la millenaria università del Cairo che è il principale centro studi islamici del Medio Oriente. L’Imam di Al-Azhar gode di uno status simile a quello di un Papa della cristianità. La madre di Zawahiri, invece, si chiama Umayna Azzam, e appartiene a una famiglia ancora più ricca e nota. Il nonno materno, infatti, era presidente dell’Università del Cairo e fondatore della King Saud University di Riad. E’ stato anche ambasciatore egiziano in Pakistan, Yemen e Arabia Saudita. Nella famiglia c’è anche un Segretario generale della Lega Araba e in generale ogni Parlamento egiziano ha avuto qualche Azzam, sia al governo sia all’opposizione.
Zawahiri è cresciuto a Maadi, cinque miglia a sud del Cairo, una ricca e bella zona residenziale laica, cosmopolita e multireligiosa. Il giornalista del New Yorker si sofferma a lungo su questi particolari per smentire la tesi secondo cui il terrorismo nasce in situazioni di degrado e sofferenza. Zawahiri era un piccolo genio, a scuola andava benissimo, non faceva sport perché considerava "disumano" il contatto fisico.
Si iscrisse a Medicina, la facoltà delle élite egiziane. Lì incontrò l’Islam radicale, ma già quindicenne rimase affascinato dalle gesta di Sayyid Qutb. Questi era un notissimo critico letterario del Cairo, fu lui a scoprire il premio Nobel Nagib Mahfuz (poi diventato bersaglio dei fondamentalisti). Nel 1950 andò in America, dove trascorse due anni in un’università del Colorado. L’esperienza con gli Stati Uniti lo traumatizzò e tornò in Egitto profondamente cambiato. Diventò un militante islamico che voleva tornare all’antico Egitto per rigettare l’influenza nefasta dell’Occidente. Pensava che la società islamica dovesse essere purificata, e il solo meccanismo potente abbastanza da riuscirci era il sanguinario strumento del Jihad. L’Egitto, in quegli anni, era nel bel mezzo di una rivoluzione. I Fratelli Musulmani, il più antico gruppo fondamentalista egiziano, lottava contro i britannici e nel 1952, in seguito all’uccisione di 50 poliziotti da parte degli inglesi, mise il Cairo a fuoco e fiamme. Dopo un paio di mesi, a giugno, una giunta militare guidata da Gamal Nasser prese il potere. Nasser, segretamente, promise ai Fratelli Musulmani che avrebbe imposto la Sharia, la legge islamica. Cosa che non fece. Qutb divenne direttore della rivista dei Fratelli Musulmani e iniziò una combattiva campagna fondamentalista. Il governo chiuse il giornale e arrestò Qutb dopo il tentativo di uccidere Nasser. Le storie sulle sofferenze patite in carcere da Qutb diventarono leggendarie per i fondamentalisti islamici. C’è chi dice che l’11 settembre sia nato in quelle celle, prima con i testi scritti da Qutb e poi con le umiliazioni subite nelle stesse carceri da Zawahiri. Gli scritti dal carcere di Qutb formarono generazioni di islamisti radicali. La sua tesi era: "L’umanità è sull’orlo del precipizio e non è minacciata soltanto dall’annientamento nucleare ma anche dalla mancanza di Valori. L’Occidente ha perso la sua vitalità e il marxismo ha fallito. In questa cruciale congiuntura è arrivato il momento dell’Islam e della società musulmana". Nel 1966 Qutb fu impiccato, e nello stesso anno Zawahiri formò una cellula islamica clandestina. Zawahiri aveva 15 anni.
Nasser morì nel 1970, gli succedette Sadat che disperatamente cercò di legittimarsi agli occhi degli islamisti. Così decise di scarcerare tutti i Fratelli Musulmani che Nasser aveva messo in prigione, in cambio del loro appoggio politico. Consentì loro di pregare e fare proselitismo a patto che non usassero la violenza. Sadat non sapeva, però, che gli islamisti erano divisi. Coloro che seguivano gli insegnamenti di Qutb non avevano nessuna intenzione di abbandonare la loro priorità, cioè sconfiggere il "nemico più vicino", il regime laico dell’Egitto, prima ancora che il "nemico distante", l’Occidente. Tornati liberi, i Fratelli Musulmani cominciarono a egemonizzare le associazioni studentesche e professionali. Per i maschi divenne "di moda" farsi crescere la barba, mentre le donne presero a indossare il velo. Zawahiri vestiva abiti occidentali e sembrava un intellettuale di sinistra di un campus americano. Si laureò nel 1974, poi trascorse tre anni come medico dell’esercito. Si sposò con Azza, la religiosissima figlia di una importante famiglia del Cairo.
La causa afghana
Zawahiri incontrò la causa afghana nel 1980. Andò in Pakistan per curare i rifugiati. Peshawar era il luogo dove i militanti islamici si preparavano a diventare martiri dell’Islam andando a combattare dall’altra parte di Khyber Pass, contro gli invasori sovietici. Tornò in Egitto, e a un suo amico americano convertito all’Islam disse: "L’America è il vero nemico. Ora stiamo accogliendo il loro aiuto per sconfiggere i sovietici, ma entrambi sono il Male". Nel frattempo c’era stata la rivoluzione islamica in Iran, dove l’ayatollah Khomeini diceva: "Sì, noi siamo reazionari, e voi intellettuali illuminati. E voi intellettuali non volete tornare indietro di 1.400 anni. Voi volete la libertà, la libertà per ogni cosa, la libertà politica, la libertà che corromperà la nostra gioventù, la libertà che preparerà la strada all’oppressore, la libertà che trascinerà la nostra nazione agli inferi". E, ancora: "Il popolo può essere reso obbediente solo con la spada. La spada è la chiave del Paradiso, che sarà aperta soltanto ai guerrieri di Allah". La repentina trasformazione di una società moderna, potente e ricca come quella iraniana, fino a diventare una rigida teocrazia provò che i sogni islamisti erano a portata di mano. Così, in Egitto, i gruppi radicali divennero ancora più irrequieti.
Nel 1981 Sadat fu ucciso. Zawahiri seppe del piano soltanto poche ore prima della sua attuazione, ma si diede un gran da fare. Il nuovo presidente Hosni Mubarak iniziò la repressione e Zawahiri cercò di fuggire in Pakistan, ma alla frontiera fu arrestato. In carcere subì torture mostruose, e in un caso tradì un compagno. Zawahiri era l’imputato numero 113 tra trecento militanti islamisti accusati di aver ucciso Sadat. I giornali e le televisioni di tutto il mondo si occuparono del processo, e Zawahiri fu scelto come portavoce dei fondamentalisti. In aula mostrava i segni delle torture e faceva comizi contro gli ebrei e gli americani. Tre anni dopo fu rilasciato, ma come tutti i suoi compagni aveva un enorme desiderio di vendetta. Trovò un lavoro a Gedda, in Arabia Saudita. Lì incontrò per la prima volta Osama bin Laden. Zawahiri aveva 34 anni e la sua fama era già formidabile. Era stato un rivoluzionario e membro di cellule clandestine per più della metà della sua vita. La sua abilità politica si era raffinata negli anni del carcere. Osama, invece, aveva ventotto anni e aveva trascorso una vita piacevole e parecchio agiata. Non aveva nessuna esperienza di vita clandestina, e nonostante fosse molto religioso non era certo un teologo. Ma aveva raccolto milioni di dollari per i combatenti afghani, e questo bastava a renderlo una figura mitica. A Gedda insegnava lo sceicco Abdullah Azzam (non è parente della madre di Zawahiri), bin Laden fu uno dei suoi allievi. Negli anni 80, Azzam era il leader della pattuglia di arabi che andò in Afghanistan a combattere la Guerra Santa contro i sovietici. L’armata degli arabi-afghani divenne leggendaria nel mondo islamico. Alcuni sostengono che contava 50 mila guerrieri, ma le stime più accreditate sostengono che non superarono mai le tremila unità.
Ayman al-Zawahiri è stato un pioniere dell’uso dei terroristi kamikaze. Gli Hezbollah usavano autobombe per attaccare gli obiettivi, mentre le operazioni militari affidate al militante suicida sono diventate il marchio di fabbrica del Jihad islamico. Un’altra innovazione di Zawahiri è stata quella di far registrare ai militanti suicidi una videocassetta che rivendicasse le azioni terroriste. Zawahiri era ossessionato dalla segretezza delle azioni, e così ha imposto una struttura di cellule cieche che non permettavano ai singoli membri di conoscere i componenti delle altre. Ma nonostante questi accorgimenti, quando nel 1993 le autorità egiziane arrestarono un suo collaboratore, fu scoperto l’elenco completo dei membri dell’organizzazione contenuto sul personal computer. Con queste informazioni i Servizi egiziani fermarono migliaia di sospetti e processarono più di trecento persone per l’omicidio del presidente del Parlamento egiziano avvenuto nel 1990. Dopo il processo, la struttura del gruppo di Zawahiri fu annientata, per cui se il Jihad islamico voleva sopravvivere doveva farlo fuori dall’Egitto. Zawahiri si mise in viaggio, ricostruì una struttura, organizzò campi di addestramento nei Balcani, in Dagestan, in Iran, in Iraq, nello Yemen, nelle Filippine, finanche in Argentina.
In quello stesso anno, Saddam Hussein invase il Kuwait, e Osama bin Laden, ormai una figura mitica nel mondo arabo per il suo ruolo in Afghanistan, andò dalla famiglia reale saudita offrendosi per difendere da un eventuale attacco iracheno i pozzi del petrolio. I sauditi decisero di affidarsi agli americani, ma dissero a Osama che gli avrebbero lasciato il paese alla fine della guerra. Un anno dopo, gli americani erano ancora in Arabia Saudita e bin Laden si sentì tradito. Tornò in Afghanistan e cominciò a fare propaganda contro il regime saudita. Nel 1992 Osama fu costretto a lasciare Kabul perché i sauditi volevano ucciderlo e si rifugiò in Sudan, dove riprese le sue attività edilizie. Zawahiri andò con lui a Khartoum. Entrambi si trovarono a meraviglia in un paese che aveva istituito la sharia, la legge islamica che avrebbero voluto in vigore anche a Riad e al Cairo. Con loro c’era Mohamed Makkawi, ex colonnello delle forze speciali dell’esercito egiziano, il primo a teorizzare un attacco come quello dell’11 settembre. Nel 1987 Makkawi suggerì di dirottare un aereo di linea per farlo schiantare sul Parlamento egiziano.
Il Sudan sembrava il posto ideale per lanciare l’attacco all’Egitto, ma c’era da superare la diffidenza di bin Laden. I membri delle varie organizzazioni islamiche egiziane non vedevano di buon occhio i suoi tentativi di globalizzare le azioni terroriste. Zawahiri aveva tentato di fare da solo, ma non c’era riuscito. Era stato anche in America, nel 1989 e nel 1993, per cercare finanziamenti e reclutare nuovi combattenti. Lì si incontrò con Ali Mohamed, un agente doppio della Cia che si vantava molto delle sua connessioni con i Servizi americani. I risultati furono scarsi, e Zawahiri capì che unirsi con bin Laden era "l’unico modo per mantenere viva l’organizzazione".
Nel 1995, Zawahiri decise di uccidere il presidente egiziano Hosni Mubarak. L’attacco avvenne nel giugno di quell’anno in Etiopia. Mubarak si salvò. La reazione fu durissima, e si dice che gli islamisti tuttora in carcere siano 15 mila, ma i fondamentalisti parlano di 60 mila persone. Zawahiri rispose con una bomba all’ambasciata egiziana in Pakistan che ne uccise sedici.
Zawahiri e bin Laden probabilmente non si sarebbero mai mossi dal Sudan se i Servizi egiziani e sauditi non avessero cercato di ucciderli. In particolare, poco dopo la bomba all’ambasciata in Pakistan, i Servizi egiziani riuscirono, con sevizie, sodomie e torture, a convincere due ragazzini vicini a Zawahiri a depositare una valigia carica di esplosivo nel luogo dove si sarebbero riuniti i capi del Jihad islamico. I due avevano già la valigietta in mano, quando i Servizi sudanesi si accorsero che intorno a loro si aggiravano uomini dei Servizi egiziani. Così li arrestarono. Zawahiri andò dalle autorià sudanesi e chiese di rilasciare i due giovani per interrogarli. Assicurò che li avrebbe riconsegnati sani e salvi. I sudanesi dipendevano dalla generosità finanziaria di bin Laden, per cui accettarono. Zawahiri, invece, processò i ragazzi, li condannò e li uccise a mo’ di esempio. Prima di giustiziarli, registrò le loro confessioni e distribuì la cassetta a tutti i membri dell’organizzazione. I sudanesi, già sotto la pressione di Stati Uniti e Arabia Saudita, decisero di espellere Zawahiri e bin Laden. Nel maggio del 1996, Osama organizzò un charter per Jalalabad, e lasciò in Sudan investimenti per trecento milioni di dollari.
I movimenti successivi di Zawahiri non sono chiari. E’ stato avvistato in Svizzera e ha cercato asilo in Bulgaria. In Olanda voleva metter su un canale satellitare che fosse un’alternativa fondamentalista ad al-Jazeera. Non se ne fece niente, nonostante i palinsesti fossero quasi pronti. Nel dicembre del 1996 si entusiasmò per la causa cecena, ma fu arrestato dai russi in Dagestan. Trascorse sei mesi in carcere, e dopo non ebbe altra alternativa che raggiungere Osama a Jalalabad, la centrale operativa di Al Qaida. Formalmente l’alleanza tra la rete di bin Laden e il Jihad islamico fu siglata il 23 febbraio del 1998, quando il nome di Zawahiri comparve tra i firmatari del documento che istituiva il "Fronte internazionale islamico per il Jihad contro gli ebrei e i crociati". Nel testo si leggeva: "Lanciamo una fatwa valida per tutti i musulmani: uccidere gli americani e i loro alleati, civili e militari, è un dovere individuale per ogni musulmano". La linea di bin Laden convinse anche gli egiziani. Da quel momento in poi l’obiettivo si limitò a un solo nemico, gli Stati Uniti d’America.
La Cia cominciò a occuparsi di loro. Dirigenti di Al Qaida furono arrestati in Azerbaigian e la cellula albanese fu distrutta. Al Qaida, il 6 agosto del 1998, attaccò le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, uccidendo 223 persone. La risposta di Bill Clinton fu quella di attaccare, il 20 agosto, i campi di addestramento di bin Laden in Afghanistan e una fabbrica farmaceutica in Sudan dove per errore si pensava fosse in produzione il gas nervino. Gli americani lanciarono 79 missili Tomahawk, ma in Afghanistan l’obiettivo grosso non fu raggiunto. Bin Laden, Zawahiri e Mohammed Atta si salvarono. Si è detto che i Servizi pachistani riuscirono ad avvertirli in tempo, ma il consigliere della Sicurezza nazionale di Clinton, Sandy Berger, disse che i pachistani furono avvertiti quando i missili erano già in volo.
Il bombardamento, scrive il New Yorker, costò ai contribuenti americani 79 milioni di dollari, e non fece altro che dimostrare l’inadeguatezza dei servizi di intelligence Usa, tantò che Clinton disse che uno degli obiettivi era un raduno di terroristi, ma il raduno in questione si era già tenuto un mese prima. Un giornale arabo di Londra ha scritto che bin Laden riuscì a vendere alla Cina i Tomahawk inesplosi per più di dieci milioni di dollari, poi usati per finanziare il Jihad in Cecenia. Il fallimento dell’operazione americana ingigantì la figura di bin Laden, il quale già nel 1993 si era vantato di aver umiliato gli americani a Mogadiscio. L’abbattimento degli elicotteri e il repentino ritiro delle truppe dalla Somalia deciso da Clinton (la storia ha ispirato "Black Hawk Down") si devono a uomini addestrati nei campi di bin Laden. Lo sceicco saudita scrive il New Yorker disse: "I nostri fratelli somali hanno visto la debolezza, la fragilità e la viltà delle truppe americane. Solo 18 di loro sono stati uccisi, e sono fuggiti nel cuore della notte".
Poi ci furono l’attentato all’Us Cole e l’11 settembre. Ora nessuno sa dove si trovino Zawahiri e bin Laden. Gli afghani erano certi della morte del chirurgo egiziano, ma un esame del Dna sul suo presunto teschio dimostra che quel cadavere non era il suo. L’articolo del New Yorker si chiude qui. L’autore, Lawrence Wright, in un’intervista ha aggiunto: "Secondo le ultime voci Zawahiri è vivo, qualche settimana fa avrebbe sposato le due vedove di un suo luogotenente ucciso in Afghanistan".