Camillo di Christian RoccaPRIMA L'IRAN. Michael Ledeen spiega come la guerra al terrore non si debba fermare a Baghdad

Washington. "Cominciamo dall’Iran", dice al Foglio Michael Ledeen, analista dell’American Enterprise Institute, un think tank conservatore ascoltato all’interno dell’Aministrazione Bush. L’ufficio di Ledeen si trova di fianco a quello di Lynne Cheney, la moglie del vicepresidente degli Stati Uniti, e tra suoi colleghi all’American Enterprise c’è Richard Perle, capo dei consiglieri del Pentagono e stratega dell’uso della forza contro i "paesi canaglia", quei "rogue states" che Bush ha riunito in un "asse del male". In questi ambienti nasce l’idea che, prima ancora di Saddam Hussein, l’America farebbe bene a occuparsi del regime degli ayatollah di Teheran. Ledeen su questo insiste da tempo. Ha scritto diversi editoriali sul Wall Street Journal, l’ultimo il 5 settembre, e ha appena pubblicato "The War against the Terror Masters" (St. Martin Press). Il libro è stato accolto molto bene, tanto che è stato scelto per il book club dell’andrewsullivan.com, il weblog politico più prestigioso del mondo. La tesi di Ledeen è semplice: "L’Iran oggi è come la Jugoslavia di Milosevic, come le Filippine degli ultimi mesi di Marcos, come la Polonia prima del crollo del comunismo, basta un niente per rovesciare il regime fondamentalista degli ayatollah". Non resta che "liberare gli iraniani". Con gli aerei e i marines? "No la nostra è una guerra di libertà contro i tiranni. L’arma più potente a disposizione dell’America è il popolo oppresso dai regimi dittatoriali. E’ una guerra rivoluzionaria, già in atto. La società civile è in rivolta, le manifestazioni contro il regime non si contano più, la partecipazione è incredibile. L’ultimo grande corteo è del 4 luglio, la settimana scorsa gli operai di un importante oleodotto hanno scioperato perché da sei mesi non ricevono lo stipendio". Per Ledeen non è quindi necessario invadere militarmente il paese: "Gli iraniani aspettano soltanto che noi li liberiamo. Il 60 per cento della popolazione è al di sotto dei 25 anni, i ragazzi non ne possono più delle imposizioni degli ayatollah, vogliono uscire per strada, divertirsi come i coetanei occidentali, invece devono guardarsi dalla polizia religiosa che taglia la mano a chi bacia la fidanzata". Non solo. Ci sono due tv californiane che trasmettono in Iran sia in farsi sia in inglese: "La gente guarda queste trasmissioni, si diverte con Baywatch e con quelle ragazze in costume da bagno, non ne può più di questi disgustosi, straricchi e corrotti ayatollah".
Ledeen in America è definito un "eroe della Guerra fredda" per i servizi resi al suo paese in Europa (fu anche corrispondente da Roma di New Republic), e da quando alla Casa Bianca c’è George Bush le sue posizioni non sono così lontane da chi detiene la catena di comando. Alla domanda su chi nell’Amministrazione la pensi come lui, Ledeen non ha avuto dubbi, e ha detto: "Il presidente". E’ stato Bush, infatti, a inserire fin dal primo momento l’Iran tra i paesi dell’asse del male. "C’è anche un gruppo di parlamentari sia repubblicani sia democratrici che la pensa così. In Europa vi dovete rendere conto che l’opinione pubblica iraniana è la più filo americana dell’Asia. Pensate all’Iran come a un grande carcere, con i cittadini nel ruolo di prigionieri in attesa di essere liberati".

Armi, soldi, intelligence e informazione
Che fare, dunque? Semplice, secondo Ledeen: intanto il contrario di quello che fa l’Europa ("aiuta il regime con rapporti finanziari e collaborazioni commerciali"), poi "il mondo occidentale o appoggia l’opposizione interna ai fondamentalisti o cambia nome. Non c’è alternativa. L’America appoggerà le forze democratiche, anzi lo sta già facendo. Manderà soldi, lavorerà con l’intelligence, potenzierà le trasmissioni televisive e radiofoniche. Darà assistenza e farà capire alla popolazione che si può fidare. Il regime crollerà, specie se nel frattempo facciamo fuori Saddam".
Iran e Iraq, i due problemi sono legati, da sempre. E secondo Ledeen, affrontare il primo aiuta a risolvere il secondo, come una specie di effetto domino che dovrebbe riguardare anche la Siria, l’Arabia Saudita e di conseguenza la questione palestinese: "Non è immaginabile che il popolo iraniano e quello iracheno tollerino la tirannia nel proprio paese una volta che la libertà raggiunge il paese vicino". E così, a cascata, la caduta di Teheran toglierà fiato agli Hezbollah in Libano e ad Al Qaida, e farà emergere un’opposizione in Siria.
Quanto a Saddam, "la decisione di attaccare è già presa, è questione di settimane". Secondo Ledeen, militarmente l’operazione non comporta alcun rischio. "Nel 1991 la battaglia terrestre durò 100 ore, 10 anni dopo ne basteranno 36/40". Si potrebbe anche fare a meno dell’intervento militare: "L’idea è quella di istituire un governo liberatore anti Saddam, al Nord e al Sud del paese, in zone già controllate dagli angloamericani e aperte a tutti gli iracheni. Arriveranno a milioni, e Saddam rimarrà isolato".

Articoli recenti di Ledeen.
Sul National Review; sul WSJ.
Il New York Sun su di lui.
Qui, il suo libro.

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