Se avete comprato <The Rising> di Bruce Springsteen e siete rimasti delusi perché vi è sembrato completamente diverso da come ve lo avevano raccontato, questo disco di Steve Earle fa per voi. Earle è un Boss minore, però più incazzato, più tosto, più proletario, più rivoluzionario. Ma non è questo il punto. "Jerusalem" è il disco che ai critici italiani sarebbe piaciuto che Springsteen avesse fatto. Mi spiego. Quando uscì il cd del Boss dedicato alla tragedia delle Torri, si scrisse che Springsteen aveva finalmente interrotto l’unanimismo patriottico dell’America post 11 settembre, e che addirittura aveva giustificato gli attentatori kamikaze. Balle, era vero il contrario. <The Rising> è un disco "patriottico", il disco critico sull’America è questo qui di Steve Earle.
<Jerusalem> musicalmente è bello. Molto. Se lo mettete sul lettore scorre piacevolmente, a patto che non sappiate una parola di inglese o che almeno siate del Correntone dei Ds.
Intanto sembra davvero un disco di Springsteen, in alcuni momenti in modo imbarazzante, in altri la voce di Earle è impastata non so se di alcol o di tabacco e somiglia a Tom Waits, Bob Dylan e Warren Zevon. Una canzone sembra la versione country di <Jumpin’ Jack Flash> dei Rolling Stones, mentre un’altra ha il ritornello uguale a <Taxman> dei Beatles. Bello, dunque. Se non ci fossero i testi, però.
Le parole più contestate sono nella canzone più bella, <John Walker’s blues>, il blues del talebano americano. Earle si mette nei panni del ragazzo che decise di fare la guerra santa al proprio paese, e gli costruisce intorno un quadretto da eroe: <Sono soltanto un ragazzo americano, cresciuto con Mtv, e ho visto tutti questi ragazzetti nelle pubblicità delle bibite, ma nessuno di loro mi assomigliava. Così ho iniziato a dare un’occhiata in giro alla ricerca di qualcosa che mi illuminasse, e la prima cosa che ho pensato avesse senso era la parola di Maometto, la pace sia con lui>. John Walker spiega via Earle che <qualche volta un uomo deve lottare per le cose in cui crede>, che <è andato a combattere la guerra santa>, che era <pronto al martirio, ma Allah aveva altri piani>. La canzone finisce con John che dice: <Ora mi stanno trascinando a casa in catene e con una testa dentro un sacco nella Terra degli Infedeli>. Earle dice che il suo obiettivo era comprendere le ragioni della scelta del ragazzo. Ma vi pare possibile che uno diventi talebano perché non gli piace Mtv?. Non era più semplice cambiare canale?
Earle è di sinistra, della sinistra radical americana, quella che vede il male in ogni azione di Washington. Cinque anni fa disse di essere più a sinistra di Mao Tse Tung, e oggi vede complotti dietro ogni angolo, come Oliver Stone. Alle sue teorie dedica canzoni a getto continuo (<Jerusalem> è il suo undicesimo album, il sesto in sei anni). Una è <Conspirancy Theory>, la Cospirazione, dove racconta dei soldati mandati al macello in Vietnam e si chiede che cosa sarebbe successo se solo John Kennedy e Martin Luther King non fossero stati uccisi. Earle sostiene che se JFK non fosse stato assassinato, il Vietnam non ci sarebbe stato, anzi forse è stato tolto di mezzo proprio per questo. Musica bellissima ma parole in libertà, anche perché i primi soldati in Vietnam li mandò proprio Kennedy.
Earle ogni tanto scrive delle cose meno strampalate. In <The Truth> si mette nei panni di un carcerato che chiede a Dio di perdonare il suo carceriere perché non sa di essere prigioniero anche lui. <Jerusalem>, l’ultimo brano, è un inno alla pace e alla riconciliazione in Medio Oriente, ingenuo ma innocuo.
I testi più politici sono altri due. <Amerika v.6.0> racconta la storia di due ex amici, uno dei quali accusa l’altro di aver abbandonato i sogni di cambiare il mondo: <Guardati, dài un’occhiata allo specchio e dimmi che cosa vedi: un altro consumatore satollo in coda per il Sogno Americano. Mi ricordo ancora di quando eravamo insieme per strada a parlare di rivoluzione>. L’America di Earle è antidemocratica e con ospedali che ti lasciano secco se non hai la carta di credito: <Centocinquanta anni fa i padri fondatori ci hanno resi uguali soltanto fino a quando possiamo pagare>. Attenzione, queste non sono dichiarazioni alla stampa, ma i testi delle sue canzoni.
Poi c’è l’agghiacciante testo di <Ashes to Ashes>, la bella canzone che apre il disco. Il titolo è indisponente, dovrebbe essere vietato chiamare una canzone con lo stesso nome di un capolavoro di David Bowie. Earle sostiene che tutto finisce in cenere. I dinosauri, per esempio, un tempo c’erano e poi sono scomparsi. La metafora gli serve per introdurre questo verso: <Niente vive per sempre, niente supera la prova del tempo. E’ sempre meglio tenere in mente che tutte le torri cadono, non importa quanto siano alte e quanto siano solide>. Per parole come queste è stato maltrattato dalla destra e trasformato in icona dalla sinistra, come Jane Fonda, detta "Hanoi Jane", ai tempi del Vietnam. Ora anche Steve Earle è pronto per dare lezioni di aerobica in videocassetta.
Christian Rocca
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Mark Knopfler The Ragpicker’s Dream
A sorpresa il leader dei Dire Straits abbandona lo stile melenso-pop del suo vendutissimo disco precedente, e torna alla sua grande passione: la musica country blues americana, suonata con la sola chitarra acustica.
Marco Parente Trasparente (Mescal distr. Sony Music)
La musica di questo ragazzo italiano è completamente diversa dal genere Springsteen o Earle, il modello esplicito piuttosto sono i Radiohead. I testi cantano però la rivoluzione e l’antimilitarismo. Rispetto a Earle in modo più astruso, nonostante l’uso della lingua italiana.